Ci siamo svegliati a Barca Bruciata, degli strani suoni venivano da fuori, apro il carabottino e attraverso le cispie vedo uno spettacolo insolito.
Una nave enorme con scritto USS qualcosa sta allattando due balenotteri.
In realtà sono sommergibili, grossi tubi scendono dalla nave e si innestano vicino alle torrette, il tutto è un po’ inquietante.
La base della Maddalena è ad un tiro di schioppo e si sta avvicinando un traghettino pitturato del grigio opaco delle navi militari.
Penso sia un cambio equipaggio o qualcosa del genere.
Finisco di srotolarmi fuori dal pertugio e vedo il Bà appoggiato con gli avambracci enormi al parapetto di teak verniciato.
Guarda in basso, scatarra e sputa fuori bordo, poi si accorge di me e mi dice:
“Draghett”
Non gli piacciono i traghetti, ne ha navigato uno solo.
Una piccola nave più adatta alla navigazione fluviale che al confronto con le onde formate,
avevano risalito il Tevere fino a sopra Roma.
Dovevano riportare a casa i caduti Francesi di Cassino.
“ ‘An so prchè abian accetat ‘cl viagg lì, ma pagavano il giusto e la fame era ancora un ricordo troppo vicino.
Accostammo ad una banchina del Lungotevere e gli alpini della Giulia imbarcarono il carico. Poche bare, un’infinità di cassette con le ossa mescolate di chissà chi, chissà come li avevano riconosciuti, chissà chi erano.
Fu un viaggio strano, lento, nessuno aveva voglia di scherzare, solo il vino anestetizzava un po’ la tensione.
Si era imbarcato con noi anche un prete Francese, giovane, precocemente calvo.
Stava in garage tutto il giorno, se pregava non lo dava a vedere, stava lì e basta, seduto su una cassetta.
Quando gli portavi da mangiare diceva “Mercì” e poi ripiombava nel suo straniero mutismo.
Il viaggio per Marsiglia durò a lungo e finì di notte.
Una folla silenziosa ad attenderci, mandava come un’onda di dolore e di ringraziamento, finalmente a casa, anche così, a casa figlio mio.
Furono fermati dall’esercito con i Chepì in testa, non si potevano avvicinare sino alla mattina, quando era stata organizzata la cerimonia ufficiale.
Lasciammo il portellone un po’ aperto durante tutta la notte, che andassero dove volevano quelle anime, che abbracciassero chi volevano.
Prima dell’alba ficcai i miei quattro stracci e due stecche di sigarette in una sacca e presi un treno, verso casa.
Feci un po’ di viaggio con il prete, gli occhi spiritati, un velo di sudore gli imperlava il labbro superiore.
“Mercì” si decise a dire prima di scendere.
“’D nient”
martedì 24 novembre 2009
Vega
Notte, dopo tre giorni di maestrale teso ma non furioso, dopo tre giorni di noia e libri.
Calma.
Grilli, assordanti e ipnotici emettono il loro mantra personale, se respiri con loro lo capisci, il ritmo cardiaco si abbassa, il respiro rallenta.
Fermo.
Resti immobile e abbassi il diaframma dopo aver espirato tutta l’aria lentamente, tenendo le labbra appena aperte e soffiando piano, come se dovessi muovere una piuma senza farla volare via.
Ti riempi d’aria senza nemmeno accorgertene, il tuo sangue è pieno di ossigeno, la sensazione che provi alla glottide è di essere pieno, una lieve pressione come se dovessi tossire.
Scivoli in acqua al buio e ti allontani dalla poppa tonda della barca, il faro di coronamento acceso vicino all’asta della bandiera, the flagstaff.
Ti lasci andare verso il fondo, gesti lenti, misurati, che facciano consumare il meno possibile.
Forte e lento come il cuore che ti rimbomba nel torace, che si fa sentire fino alla punta delle dita, rese morbide dall’acqua.
Sei giù da qualche secondo, ti ha guidato fin lì l’incredibile fosforescenza del plancton che si attiva solo se muovi l’acqua , strie di luce, puntini verdi, creature misteriose.
Accendi finalmente il tuo nuovo tesoro, il capolavoro della Technisub, la torcia Vega, come la stella.
Le lunghe foglie della posidonia si illuminano di colpo, fluttuano nella poca corrente come lunghi capelli verdi, una corvina si immobilizza accecata dal raggio.
Sposto la luce sulla mia destra, la corvina sparisce, prende vita un'altra creatura che si immobilizza come un mimo durante il suo spostamento fuori dalla tana, un grosso tordo marvizzo, dalle labbra carnose ed i colori accesi.
Riemergo, mi sposto veloce sul pelo dell’acqua per portarmi vicino a degli scogli, almeno penso di stare andando in quella direzione, i fari accesi sulle barche in rada mi fanno da guida.
Mi infilo fra due massi e controllo le tane al disotto, brillano di saraghi immobili e un po’ spaventati, un grongo quasi nero fila via sicuro per niente infastidito dall’intrusione.
Seguo il profilo della costa rocciosa, mi incuneo in una fenditura, pomodori di mare sulle pareti, un cumulo di posidonia stappata dal mare sul fondo, foglie marroni e nere ridotte in piccoli pezzi che ti aderiscono alla pelle.
Riemergo dentro l’insenatura, il tubo cozza contro qualcosa, sputo l’acqua dalla bocca e non riesco a respirare, mi sono infilato in una specie di grotta, retrocedo veloce e spaventato, finalmente fuori, fuori, respiro a lungo e mi calmo.
Torno indietro pinneggiando lento, sposto il raggio da una parte all’altra, illumino dei totani che veloci cacciano appena sotto il pelo dell’acqua dei pesciolini minuscoli.
E’ come guardare delle diapositive o attraverso il buco di una serratura, tutto appare e prende vita solo nel cerchio sfocato della torcia, prende vita ed al contempo si ferma, per farsi ammirare.
Arrivo alla scaletta, mi levo le pinne e le lancio a bordo, atterrano con un ciak sonoro un po’ umido, mi isso sugli scalini con la torcia che, spenta, mi penzola lungo il braccio, attaccata con un cordino.
Arrivo in coperta e la bacio, poi ricomincio a respirare con i grilli.
Calma.
Grilli, assordanti e ipnotici emettono il loro mantra personale, se respiri con loro lo capisci, il ritmo cardiaco si abbassa, il respiro rallenta.
Fermo.
Resti immobile e abbassi il diaframma dopo aver espirato tutta l’aria lentamente, tenendo le labbra appena aperte e soffiando piano, come se dovessi muovere una piuma senza farla volare via.
Ti riempi d’aria senza nemmeno accorgertene, il tuo sangue è pieno di ossigeno, la sensazione che provi alla glottide è di essere pieno, una lieve pressione come se dovessi tossire.
Scivoli in acqua al buio e ti allontani dalla poppa tonda della barca, il faro di coronamento acceso vicino all’asta della bandiera, the flagstaff.
Ti lasci andare verso il fondo, gesti lenti, misurati, che facciano consumare il meno possibile.
Forte e lento come il cuore che ti rimbomba nel torace, che si fa sentire fino alla punta delle dita, rese morbide dall’acqua.
Sei giù da qualche secondo, ti ha guidato fin lì l’incredibile fosforescenza del plancton che si attiva solo se muovi l’acqua , strie di luce, puntini verdi, creature misteriose.
Accendi finalmente il tuo nuovo tesoro, il capolavoro della Technisub, la torcia Vega, come la stella.
Le lunghe foglie della posidonia si illuminano di colpo, fluttuano nella poca corrente come lunghi capelli verdi, una corvina si immobilizza accecata dal raggio.
Sposto la luce sulla mia destra, la corvina sparisce, prende vita un'altra creatura che si immobilizza come un mimo durante il suo spostamento fuori dalla tana, un grosso tordo marvizzo, dalle labbra carnose ed i colori accesi.
Riemergo, mi sposto veloce sul pelo dell’acqua per portarmi vicino a degli scogli, almeno penso di stare andando in quella direzione, i fari accesi sulle barche in rada mi fanno da guida.
Mi infilo fra due massi e controllo le tane al disotto, brillano di saraghi immobili e un po’ spaventati, un grongo quasi nero fila via sicuro per niente infastidito dall’intrusione.
Seguo il profilo della costa rocciosa, mi incuneo in una fenditura, pomodori di mare sulle pareti, un cumulo di posidonia stappata dal mare sul fondo, foglie marroni e nere ridotte in piccoli pezzi che ti aderiscono alla pelle.
Riemergo dentro l’insenatura, il tubo cozza contro qualcosa, sputo l’acqua dalla bocca e non riesco a respirare, mi sono infilato in una specie di grotta, retrocedo veloce e spaventato, finalmente fuori, fuori, respiro a lungo e mi calmo.
Torno indietro pinneggiando lento, sposto il raggio da una parte all’altra, illumino dei totani che veloci cacciano appena sotto il pelo dell’acqua dei pesciolini minuscoli.
E’ come guardare delle diapositive o attraverso il buco di una serratura, tutto appare e prende vita solo nel cerchio sfocato della torcia, prende vita ed al contempo si ferma, per farsi ammirare.
Arrivo alla scaletta, mi levo le pinne e le lancio a bordo, atterrano con un ciak sonoro un po’ umido, mi isso sugli scalini con la torcia che, spenta, mi penzola lungo il braccio, attaccata con un cordino.
Arrivo in coperta e la bacio, poi ricomincio a respirare con i grilli.
martedì 17 novembre 2009
Cats
Le associazioni di idee sono strane.
Oggi il Comandante si è messo ai fornelli, ogni tanto lo fa ed il risultato è di solito strepitoso.
L’odore del coniglio in agrodolce ha invaso la barca, con il sentore forte dell’aceto e del rosmarino, il dolce dello zucchero caramellato, il piccante del peperoncino.
La vampata che saliva dal fornello faceva lacrimare gli occhi e accendeva le ghiandole salivari, lo stomaco reagiva con un ruggito.
E a me, per associazione con il coniglio, sono venuti in mente i miei gatti.
Ho sempre avuto gatti per casa, desideravo fortemente anche un cane ma il babbo è sempre stato contrario, diceva di aver pianto troppo da piccolo.
I miei gatti erano particolari, tutti diversi uno dall’altro.
La prima è stata la Stuka, la grande genitrice, feconda selvaggia mai domata, che si avvicinava al cibo con un miagolio continuo, fortissimo, come una sirena, sembrava uno Stuka in picchiata.
E poi il gran signore di strada, Sir Robert Mitchum, detto Baloto per le spropositate dimensioni dei testicoli che usava a tutto spiano, guerriero sanguinario dalle orecchie rosicchiate, affettuoso compagno che mi accompagnava a scuola tutte le mattine, vigoroso e morbido, giocherellone e testardo, morto per infezione dei graffi riportati in battaglia.
Pallino, tenero sbavone misto siamese, adorato dalle donne, sempre alla ricerca di coccole, incapace di difendersi, con l’occhio triste di chi sapeva di essere destinato a vita breve.
Silvestro, simpatico e burlone, talmente cacciatore da aver ucciso degli scoiattoli giapponesi appena fuggiti da un negozio di animali, morto per aver adottato un gattino malato che scaldava affettuosamente.
Zippo, meraviglioso rosso, corto e dalla testa grossa, intelligente e ruffiano, forse il mio preferito, che dormiva con me e mi chiamava in soccorso quando era rifugiato sul pino, assediato dalla tigre del vicino.
E la gattina Bianca, la gatta Zombie riesumata dalla Ada.
La Ada era una fattucchiera che viveva di fronte a casa mia, donna magrissima e severa, sorella di un poeta, dall’italiano perfetto e senza l’accento cacuminale delle mie zone, viveva in una casa assimilabile ad una discarica, dove ricordi e segreti si mescolavano alle pozioni e al disordine.
Aveva una crocchia di capelli color acciaio stretta stretta in testa, di sera li scioglieva e se li pettinava, erano incredibilmente lunghi ed erano neri come il carbone verso le punte.
Era sempre circondata da gatti brutti, poco socievoli, odiava i bambini e forse li arrostiva, con me era più gentile che con gli altri, forse sarei stato il suo ultimo pasto.
La Gattina Bianca era talmente strana da non essersi meritata un nome, riservata e schiva mi chiamava sempre per le emergenze, mi prese con i denti per la mano e mi guidò al cespuglio di rosmarino dove aveva deciso di partorire, stetti con lei tutta la notte.
Era agilissima ed aveva la strana abitudine di avvelenarsi, alla decima volta decise di morire.
La Ada non era d’accordo, la prese che era già rigida e se la portò in casa.
Dopo una settimana di pratiche sconosciute era tornata a casa, più impenetrabile di sempre e con uno sguardo perso, le zampe dietro rigide ed il pelo bianco diventato un po’ grigio come i capelli della fattucchiera.
Visse ancora a lungo poi sparì.
“Ninin, ven al tavulin che al è pront”
“ Bà ‘T m farè un panin cà vai a pscar?”
Oggi il Comandante si è messo ai fornelli, ogni tanto lo fa ed il risultato è di solito strepitoso.
L’odore del coniglio in agrodolce ha invaso la barca, con il sentore forte dell’aceto e del rosmarino, il dolce dello zucchero caramellato, il piccante del peperoncino.
La vampata che saliva dal fornello faceva lacrimare gli occhi e accendeva le ghiandole salivari, lo stomaco reagiva con un ruggito.
E a me, per associazione con il coniglio, sono venuti in mente i miei gatti.
Ho sempre avuto gatti per casa, desideravo fortemente anche un cane ma il babbo è sempre stato contrario, diceva di aver pianto troppo da piccolo.
I miei gatti erano particolari, tutti diversi uno dall’altro.
La prima è stata la Stuka, la grande genitrice, feconda selvaggia mai domata, che si avvicinava al cibo con un miagolio continuo, fortissimo, come una sirena, sembrava uno Stuka in picchiata.
E poi il gran signore di strada, Sir Robert Mitchum, detto Baloto per le spropositate dimensioni dei testicoli che usava a tutto spiano, guerriero sanguinario dalle orecchie rosicchiate, affettuoso compagno che mi accompagnava a scuola tutte le mattine, vigoroso e morbido, giocherellone e testardo, morto per infezione dei graffi riportati in battaglia.
Pallino, tenero sbavone misto siamese, adorato dalle donne, sempre alla ricerca di coccole, incapace di difendersi, con l’occhio triste di chi sapeva di essere destinato a vita breve.
Silvestro, simpatico e burlone, talmente cacciatore da aver ucciso degli scoiattoli giapponesi appena fuggiti da un negozio di animali, morto per aver adottato un gattino malato che scaldava affettuosamente.
Zippo, meraviglioso rosso, corto e dalla testa grossa, intelligente e ruffiano, forse il mio preferito, che dormiva con me e mi chiamava in soccorso quando era rifugiato sul pino, assediato dalla tigre del vicino.
E la gattina Bianca, la gatta Zombie riesumata dalla Ada.
La Ada era una fattucchiera che viveva di fronte a casa mia, donna magrissima e severa, sorella di un poeta, dall’italiano perfetto e senza l’accento cacuminale delle mie zone, viveva in una casa assimilabile ad una discarica, dove ricordi e segreti si mescolavano alle pozioni e al disordine.
Aveva una crocchia di capelli color acciaio stretta stretta in testa, di sera li scioglieva e se li pettinava, erano incredibilmente lunghi ed erano neri come il carbone verso le punte.
Era sempre circondata da gatti brutti, poco socievoli, odiava i bambini e forse li arrostiva, con me era più gentile che con gli altri, forse sarei stato il suo ultimo pasto.
La Gattina Bianca era talmente strana da non essersi meritata un nome, riservata e schiva mi chiamava sempre per le emergenze, mi prese con i denti per la mano e mi guidò al cespuglio di rosmarino dove aveva deciso di partorire, stetti con lei tutta la notte.
Era agilissima ed aveva la strana abitudine di avvelenarsi, alla decima volta decise di morire.
La Ada non era d’accordo, la prese che era già rigida e se la portò in casa.
Dopo una settimana di pratiche sconosciute era tornata a casa, più impenetrabile di sempre e con uno sguardo perso, le zampe dietro rigide ed il pelo bianco diventato un po’ grigio come i capelli della fattucchiera.
Visse ancora a lungo poi sparì.
“Ninin, ven al tavulin che al è pront”
“ Bà ‘T m farè un panin cà vai a pscar?”
lunedì 2 novembre 2009
MS
Oggi non va, mi fa male la cicatrice.
Ho un buco orrendo sulla gamba sinistra, manca della carne, il tutto è suturato da quattro punti dati larghi, come quelli di Frankstein.
Da bambino correvo veloce, molto veloce, non abbastanza da evitare quella maledetta 126 color cacchetta.
Ero andato a prendere le sigarette al Bà, una distrazione, il testa di cazzo alla guida andava come un matto, mi ha preso.
Il buio, lo stupore di vedere il piede parallelo al suolo quando avrebbe dovuto puntare in alto, il dolore, prima alla mano, poi alla gamba, il sangue dappertutto, la gente che mi si affolla intorno, il babbo che arriva di corsa e mi guarda con gli occhi pieni di dolore.
E poi il viaggio in ambulanza, io che prego di togliere la sirena , non sono grave, non sono grave.
Io sul lettino del pronto soccorso, una persona mi tiene per le spalle, voglio vedere, non urlo se mi fate vedere.
La sensazione di essere violato in qualcosa di intimo quando il dottore prende l’osso della tibia, mentre due infermieri tirano il piede, per accompagnare l’osso dove dovrebbe stare, all’interno della gamba.
E poi quei quattro punti dati con il ferro, non con il filo, le chiamano graffette.
Il ricovero in un reparto che avrei scoperto meraviglioso, dove il dolore era solo fisico, dove nonostante i gessi si rideva molto.
L’operazione, il ricordo del sogno in anestesia, scale con inclinazioni impossibili, vedere attraverso un vetro rotto, il puzzo del risveglio, il sapore di merda in bocca.
Degenza infinita, le ottantotto iniezioni di antibiotici, infezione ossea da scongiurare, la mamma che piange mentre lava e toglie il sangue dai calzoni marroni di velluto a coste larghe.
Ci vuole poco ad isolare, a discriminare, bastano due stampelle e non saper più camminare.
I mondiali d’Argentina visti a letto, mentre gli amici inseguivano un tango io cercavo di abbattere un pino con una stampella.
L’immagine di Moro ritrovato in una Renault 4 rossa, che anno di merda.
Il dolore alle braccia e le vesciche alle mani, l’estate infinita a camminare come uno storpio lungo la battigia.
L’acqua, dove la gravità non esiste, dove rinasco, dove non sono inadeguato, dove sono come gli altri.
Ho scoperto che il babbo tiene nel portafoglio cinquecento lire strappate e sporche di sangue ed un pacchetto vuoto di MS.
Ogni tanto quando finisce di fumare una delle sue sigarette storte, fatte a forma di fulmine, guarda il mozzicone sempre acceso tenuto tra indice e pollice, lo guarda con tristezza, come se oltre alla certezza che quella merda lo ucciderà ci sia anche la consapevolezza di qualcosa che ha tolto a me.
Poi la butta con rabbia.
Le cicatrici fanno male.
Per sempre.
Ho un buco orrendo sulla gamba sinistra, manca della carne, il tutto è suturato da quattro punti dati larghi, come quelli di Frankstein.
Da bambino correvo veloce, molto veloce, non abbastanza da evitare quella maledetta 126 color cacchetta.
Ero andato a prendere le sigarette al Bà, una distrazione, il testa di cazzo alla guida andava come un matto, mi ha preso.
Il buio, lo stupore di vedere il piede parallelo al suolo quando avrebbe dovuto puntare in alto, il dolore, prima alla mano, poi alla gamba, il sangue dappertutto, la gente che mi si affolla intorno, il babbo che arriva di corsa e mi guarda con gli occhi pieni di dolore.
E poi il viaggio in ambulanza, io che prego di togliere la sirena , non sono grave, non sono grave.
Io sul lettino del pronto soccorso, una persona mi tiene per le spalle, voglio vedere, non urlo se mi fate vedere.
La sensazione di essere violato in qualcosa di intimo quando il dottore prende l’osso della tibia, mentre due infermieri tirano il piede, per accompagnare l’osso dove dovrebbe stare, all’interno della gamba.
E poi quei quattro punti dati con il ferro, non con il filo, le chiamano graffette.
Il ricovero in un reparto che avrei scoperto meraviglioso, dove il dolore era solo fisico, dove nonostante i gessi si rideva molto.
L’operazione, il ricordo del sogno in anestesia, scale con inclinazioni impossibili, vedere attraverso un vetro rotto, il puzzo del risveglio, il sapore di merda in bocca.
Degenza infinita, le ottantotto iniezioni di antibiotici, infezione ossea da scongiurare, la mamma che piange mentre lava e toglie il sangue dai calzoni marroni di velluto a coste larghe.
Ci vuole poco ad isolare, a discriminare, bastano due stampelle e non saper più camminare.
I mondiali d’Argentina visti a letto, mentre gli amici inseguivano un tango io cercavo di abbattere un pino con una stampella.
L’immagine di Moro ritrovato in una Renault 4 rossa, che anno di merda.
Il dolore alle braccia e le vesciche alle mani, l’estate infinita a camminare come uno storpio lungo la battigia.
L’acqua, dove la gravità non esiste, dove rinasco, dove non sono inadeguato, dove sono come gli altri.
Ho scoperto che il babbo tiene nel portafoglio cinquecento lire strappate e sporche di sangue ed un pacchetto vuoto di MS.
Ogni tanto quando finisce di fumare una delle sue sigarette storte, fatte a forma di fulmine, guarda il mozzicone sempre acceso tenuto tra indice e pollice, lo guarda con tristezza, come se oltre alla certezza che quella merda lo ucciderà ci sia anche la consapevolezza di qualcosa che ha tolto a me.
Poi la butta con rabbia.
Le cicatrici fanno male.
Per sempre.
mercoledì 28 ottobre 2009
Immobile
“ ‘T sen armas lì ferm come ‘l Monolite ‘d Mussolini”
Effettivamente ho assistito alla partita del secolo, probabilmente del millennio, contravvenendo a tutte le mie regole di scaramanzia.
Ero talmente teso che ad ogni guizzo da muggine di Pablito Rossi, alle risposte veementi di quei diavoli scatenati, al pareggio sanguinoso di quel pezzo di merda di Falcao, alla parata all’ultimo secondo di un miope e fenomenale Zoff, ho reagito grattando con le unghie il bordo di metallo del sesto gradino su cui ero seduto, urlando fortissimo ma rimanendo assolutamente fermo.
Praticamente ero là con tutto me stesso, mi ero smaterializzato ed ero riapparso sulle tribune del Sarrià con un occhio alla partita ed uno sguardo fugace a quella brasiliana che si alzava la maglietta per asciugarsi le lacrime.
Secondo me dopo questa non ci ferma più nessuno, vinciamo il Mondiale.
Riatterro dentro me stesso e mi rendo conto di essere completamente indolenzito e felice.
Però la storia del Monolite la ricordo bene.
Il fascio ha sempre avuto un rapporto stretto con il marmo, rifacendosi al fulgido simbolismo romano non potevano evitare di rompere i maroni ai cavatori.
Già il vate D’Annunzio aveva fatto le prove nei primi anni del secolo, era stato invitato alla Varata della Storia, in pratica doveva accendere la miccia ad una mina di 24.000 chilogrammi di polvere pirica che avrebbe dovuto consentire un’estrazione miracolosa.
Al momento dell’accensione l’astuto poeta si rese irreperibile ed inviò una terrorizzata Madrina a 1200 metri di quota.
Il cataclisma che ne derivò fu commentato con immortali parole dal Sommo mentre probabilmente si stava facendo praticare un mugolone dalla seconda Madrina che si era portato al seguito:
“La montagna si piega gemendo”
Anni dopo il Pelatone ordinò l’estrazione del Monolite, un mostro di 300 tonnellate lungo 18 metri che doveva essere eretto come simbolo fallico al Foro Mussolini, ora Foro Italico.
L’estrazione ed il trasporto furono faticosissimi, vennero distrutte abitazioni, ponti e strade allargati per consentire di spostare, tirato da 60 paia di buoi, il mostro dalla cava Carbonera alla spiaggia di Marina.
Tutti i cavatori anarchici si rifiutarono di partecipare e vennero adeguatamente manganellati, gli espropriati furono convinti con le buone, ci volle un anno intero per percorrere undici chilometri, con la grottesca vessazione finale della trattenuta di un giorno di paga per coprire i costi di trasporto.
Gli abitanti tutto sommato la presero bene guardando sconsolati tutto quello spreco di fatica, soldi e risorse la definirono sagacemente “La più grande segata della storia”
Chapeau.
Effettivamente ho assistito alla partita del secolo, probabilmente del millennio, contravvenendo a tutte le mie regole di scaramanzia.
Ero talmente teso che ad ogni guizzo da muggine di Pablito Rossi, alle risposte veementi di quei diavoli scatenati, al pareggio sanguinoso di quel pezzo di merda di Falcao, alla parata all’ultimo secondo di un miope e fenomenale Zoff, ho reagito grattando con le unghie il bordo di metallo del sesto gradino su cui ero seduto, urlando fortissimo ma rimanendo assolutamente fermo.
Praticamente ero là con tutto me stesso, mi ero smaterializzato ed ero riapparso sulle tribune del Sarrià con un occhio alla partita ed uno sguardo fugace a quella brasiliana che si alzava la maglietta per asciugarsi le lacrime.
Secondo me dopo questa non ci ferma più nessuno, vinciamo il Mondiale.
Riatterro dentro me stesso e mi rendo conto di essere completamente indolenzito e felice.
Però la storia del Monolite la ricordo bene.
Il fascio ha sempre avuto un rapporto stretto con il marmo, rifacendosi al fulgido simbolismo romano non potevano evitare di rompere i maroni ai cavatori.
Già il vate D’Annunzio aveva fatto le prove nei primi anni del secolo, era stato invitato alla Varata della Storia, in pratica doveva accendere la miccia ad una mina di 24.000 chilogrammi di polvere pirica che avrebbe dovuto consentire un’estrazione miracolosa.
Al momento dell’accensione l’astuto poeta si rese irreperibile ed inviò una terrorizzata Madrina a 1200 metri di quota.
Il cataclisma che ne derivò fu commentato con immortali parole dal Sommo mentre probabilmente si stava facendo praticare un mugolone dalla seconda Madrina che si era portato al seguito:
“La montagna si piega gemendo”
Anni dopo il Pelatone ordinò l’estrazione del Monolite, un mostro di 300 tonnellate lungo 18 metri che doveva essere eretto come simbolo fallico al Foro Mussolini, ora Foro Italico.
L’estrazione ed il trasporto furono faticosissimi, vennero distrutte abitazioni, ponti e strade allargati per consentire di spostare, tirato da 60 paia di buoi, il mostro dalla cava Carbonera alla spiaggia di Marina.
Tutti i cavatori anarchici si rifiutarono di partecipare e vennero adeguatamente manganellati, gli espropriati furono convinti con le buone, ci volle un anno intero per percorrere undici chilometri, con la grottesca vessazione finale della trattenuta di un giorno di paga per coprire i costi di trasporto.
Gli abitanti tutto sommato la presero bene guardando sconsolati tutto quello spreco di fatica, soldi e risorse la definirono sagacemente “La più grande segata della storia”
Chapeau.
martedì 13 ottobre 2009
Garota de Ipanema
Ci siamo mossi addirittura la mattina, fondo a Cugnana e spostamento fino a Porto Rotondo con il gommone grosso.
A bordo una Grinza versione fatalona con pareo, foulard al collo, cappello di paglia a tesa larga e occhialoni alla Mina, il Signor B. con immancabile camicione in lino color tranviere e pantaloni a mezza gamba stile mi son cagato addosso.
Li ho lasciati lì in preda ad una rara voglia di confondersi con altri esseri umani e sono scappato a Cugnana, avevo circa due ore di tempo.
Il posto non è bellissimo, stanno costruendo un residence spropositato che avrà come unica attrattiva quella di essere vicino al Porto dei Boriosi, però meno caro.
Non so perché questa cosa mi fa un po’ incazzare, veder violata la natura mi mette sempre in uno stato di profondo struggimento, non sarei mai in grado di abbattere una pianta, neanche per costruirci un’opera d’arte al suo posto, sono strano.
Mi smutando ed indosso il costume a righe ipnotico, cintura di piombi e via.
Sott’acqua fa ancora più schifo, il fondo è basso a ciottoli piuttosto grossi, ricoperti da una sorta di mucillaggine, nessuna creatura in vista, l’acqua è calda e torbida, inquinata dagli spurghi del cantiere.
Continuo a pinneggiare nel golfetto stretto e lungo ma la situazione non cambia, tocco con la mano le alghe ricavandone una sensazione di fastidio, attraverso la maschera me la guardo e mi sembra di aver indossato un guanto verde di velluto.
Scuoto la mano e provo a trovare un bersaglio per scaricare il fucile prima di far ritorno al gommone, si staglia in un metro scarso d’acqua un bicchierino di plastica affondato.
Sarà la mia preda, mi allontano fino alla portata massima del fucile, mi immergo e lo prendo di mira, non voglio sparare prima di aver completato l’aria nei polmoni.
Sparo e centro il bicchiere che si divide in quattro petali, al click sommesso del meccanismo di apertura mi si drizzano i peli del braccio destro, lentamente mi sfila da quel lato una creatura bellissima.
Alzo la testa un attimo e respiro, mi sorpassa guardandomi con il suo enorme occhio sinistro, inizio a recuperare il più lentamente possibile la sagola del fucile mentre lei si posiziona proprio davanti a me, mostrandosi in tutto il suo splendore.
E’ una ricciola enorme, la linea laterale colorata di verde e oro, uno sbuffo di nero sugli occhi come ombretto tirato verso l’alto, l’abito argenteo fatto di minuscole squame.
Resta lì immobile mentre infilo l’asta nel fucile e con la massima cura la faccio scivolare fino ad incastrarla nell’apposito incasso.
Il rumore che produce è minimo, a me sembra un tuono, abbasso gli occhi per controllare che tutto sia a posto, li rialzo, lei non c’è più, sparita.
Mi accanisco di nuovo sui resti del bicchiere, torno al gommone crogiolandomi nella certezza che non le avrei mai sparato.
Mi isso pesantemente a bordo togliendomi la cintura senza riuscire a scrollarmi di dosso una profonda sensazione di gioia e di fastidio per quello che ho visto, per quello che avrei potuto fare.
Una signora verde e oro è venuta in una fogna, mi ha sedotto ed è sparita, volendo essere specifici mi ha preso pure per il culo.
E cazzo fra tre ore c’è il Brasile.
A bordo una Grinza versione fatalona con pareo, foulard al collo, cappello di paglia a tesa larga e occhialoni alla Mina, il Signor B. con immancabile camicione in lino color tranviere e pantaloni a mezza gamba stile mi son cagato addosso.
Li ho lasciati lì in preda ad una rara voglia di confondersi con altri esseri umani e sono scappato a Cugnana, avevo circa due ore di tempo.
Il posto non è bellissimo, stanno costruendo un residence spropositato che avrà come unica attrattiva quella di essere vicino al Porto dei Boriosi, però meno caro.
Non so perché questa cosa mi fa un po’ incazzare, veder violata la natura mi mette sempre in uno stato di profondo struggimento, non sarei mai in grado di abbattere una pianta, neanche per costruirci un’opera d’arte al suo posto, sono strano.
Mi smutando ed indosso il costume a righe ipnotico, cintura di piombi e via.
Sott’acqua fa ancora più schifo, il fondo è basso a ciottoli piuttosto grossi, ricoperti da una sorta di mucillaggine, nessuna creatura in vista, l’acqua è calda e torbida, inquinata dagli spurghi del cantiere.
Continuo a pinneggiare nel golfetto stretto e lungo ma la situazione non cambia, tocco con la mano le alghe ricavandone una sensazione di fastidio, attraverso la maschera me la guardo e mi sembra di aver indossato un guanto verde di velluto.
Scuoto la mano e provo a trovare un bersaglio per scaricare il fucile prima di far ritorno al gommone, si staglia in un metro scarso d’acqua un bicchierino di plastica affondato.
Sarà la mia preda, mi allontano fino alla portata massima del fucile, mi immergo e lo prendo di mira, non voglio sparare prima di aver completato l’aria nei polmoni.
Sparo e centro il bicchiere che si divide in quattro petali, al click sommesso del meccanismo di apertura mi si drizzano i peli del braccio destro, lentamente mi sfila da quel lato una creatura bellissima.
Alzo la testa un attimo e respiro, mi sorpassa guardandomi con il suo enorme occhio sinistro, inizio a recuperare il più lentamente possibile la sagola del fucile mentre lei si posiziona proprio davanti a me, mostrandosi in tutto il suo splendore.
E’ una ricciola enorme, la linea laterale colorata di verde e oro, uno sbuffo di nero sugli occhi come ombretto tirato verso l’alto, l’abito argenteo fatto di minuscole squame.
Resta lì immobile mentre infilo l’asta nel fucile e con la massima cura la faccio scivolare fino ad incastrarla nell’apposito incasso.
Il rumore che produce è minimo, a me sembra un tuono, abbasso gli occhi per controllare che tutto sia a posto, li rialzo, lei non c’è più, sparita.
Mi accanisco di nuovo sui resti del bicchiere, torno al gommone crogiolandomi nella certezza che non le avrei mai sparato.
Mi isso pesantemente a bordo togliendomi la cintura senza riuscire a scrollarmi di dosso una profonda sensazione di gioia e di fastidio per quello che ho visto, per quello che avrei potuto fare.
Una signora verde e oro è venuta in una fogna, mi ha sedotto ed è sparita, volendo essere specifici mi ha preso pure per il culo.
E cazzo fra tre ore c’è il Brasile.
martedì 29 settembre 2009
Dalla
Fin’ora non ho sentito tanta pressione in quel senso, ma da qualche sera a questa parte non riesco a dormire.
Crollo verso le 11, distrutto dai miei giochi e dai miei doveri e partono immediati sogni di fuoco con protagoniste le mie due amiche del cuore.
Mi sveglio verso le due con la barca completamente addormentata e mi aggiro in salone cercando qualcosa per dare sfogo al mio testicolo di adolescente.
Nulla, ci sono monasteri con più materiale scottante a disposizione, sfoglio avidamente Bolina, Yacth and Sales, il Gommonauta, alla ricerca feroce di uno slip calato o di una tetta sbarazzina, nulla.
Dopo ore di sfogliamento ininterrotto cedo alla foto di un tangone sul quale svetta uno spinnaker molto gonfio, molto rotondo e colorato, ricorda quasi quasi, eh si, lo ricorda proprio, uddio come lo ricorda…………………
Non posso andare avanti così.
Oltretutto con il rischio di farmi beccare e far la figura del feticista.
Il materiale qui intorno ci sarebbe anche, c’è pieno di monelle piuttosto spogliate, ma sono tutte straniere, non saprei provare un approccio e poi sono un po’ scemo, timido, non so, mi ci vuole il mio tempo, non sono uno che fa lo splendido e si ritrova a limonare dopo due minuti.
Vado sulla tormentina e mi tormento, faccio strategie elaboratissime di abbordo che se non altro mi fanno passare le voglie e riprendere il sonno.
Il bà mi ritrova alle sei di mattina intirizzito e ricoperto dalla copiosa rugiada notturna della Sardegna.
Non mi fa tante domande, magari capisce, ma con lui l’argomento è tabù, non siamo in confidenza per queste cose.
Decido di svegliarmi alla mia maniera, veloce caffè e partenza a fuoco con il gommoncino, voglio sterminare tutte le seppie del pianeta.
Ho una baietta molto isolata a disposizione, proprio sotto quella villa rosso sbiadito, di solito non ci vado per non disturbare, ma stamani è così presto che non darò noia a nessuno.
Butto l’ancora, mi tuffo, sparo al primo cefalopode e tiro su la testa dall’acqua per sfilarlo dalla fiocina, e mi appare lei sullo scoglio sopra di me.
E’ giovane e mora e soprattutto nuda, con il cespuglio tutto in vista e gli occhiali da sole.
Avvampo e comincio a girare li sotto tanto per guadagnare tempo, dopo due minuti lei mi battezza per quel che sono, un maniaco, e scocciata risale la scaletta che porta al patio, dandomi il dolore di coprirsi il culo con l’asciugamano.
Sconvolto dalla figura di merda ma con ben stampata in mente l’anatomia femminile torno mestamente a bordo dove, forse confuso o sovrappensiero domando al bà:
“Ma come fanno i marinai?”
“Aspettano”
Minchia, che bella notizia.
Crollo verso le 11, distrutto dai miei giochi e dai miei doveri e partono immediati sogni di fuoco con protagoniste le mie due amiche del cuore.
Mi sveglio verso le due con la barca completamente addormentata e mi aggiro in salone cercando qualcosa per dare sfogo al mio testicolo di adolescente.
Nulla, ci sono monasteri con più materiale scottante a disposizione, sfoglio avidamente Bolina, Yacth and Sales, il Gommonauta, alla ricerca feroce di uno slip calato o di una tetta sbarazzina, nulla.
Dopo ore di sfogliamento ininterrotto cedo alla foto di un tangone sul quale svetta uno spinnaker molto gonfio, molto rotondo e colorato, ricorda quasi quasi, eh si, lo ricorda proprio, uddio come lo ricorda…………………
Non posso andare avanti così.
Oltretutto con il rischio di farmi beccare e far la figura del feticista.
Il materiale qui intorno ci sarebbe anche, c’è pieno di monelle piuttosto spogliate, ma sono tutte straniere, non saprei provare un approccio e poi sono un po’ scemo, timido, non so, mi ci vuole il mio tempo, non sono uno che fa lo splendido e si ritrova a limonare dopo due minuti.
Vado sulla tormentina e mi tormento, faccio strategie elaboratissime di abbordo che se non altro mi fanno passare le voglie e riprendere il sonno.
Il bà mi ritrova alle sei di mattina intirizzito e ricoperto dalla copiosa rugiada notturna della Sardegna.
Non mi fa tante domande, magari capisce, ma con lui l’argomento è tabù, non siamo in confidenza per queste cose.
Decido di svegliarmi alla mia maniera, veloce caffè e partenza a fuoco con il gommoncino, voglio sterminare tutte le seppie del pianeta.
Ho una baietta molto isolata a disposizione, proprio sotto quella villa rosso sbiadito, di solito non ci vado per non disturbare, ma stamani è così presto che non darò noia a nessuno.
Butto l’ancora, mi tuffo, sparo al primo cefalopode e tiro su la testa dall’acqua per sfilarlo dalla fiocina, e mi appare lei sullo scoglio sopra di me.
E’ giovane e mora e soprattutto nuda, con il cespuglio tutto in vista e gli occhiali da sole.
Avvampo e comincio a girare li sotto tanto per guadagnare tempo, dopo due minuti lei mi battezza per quel che sono, un maniaco, e scocciata risale la scaletta che porta al patio, dandomi il dolore di coprirsi il culo con l’asciugamano.
Sconvolto dalla figura di merda ma con ben stampata in mente l’anatomia femminile torno mestamente a bordo dove, forse confuso o sovrappensiero domando al bà:
“Ma come fanno i marinai?”
“Aspettano”
Minchia, che bella notizia.
venerdì 25 settembre 2009
Vip
“ E in’t’la pù ardata?”
“No, riciulin ‘d merda”
“Dai bà, se la sarà scordata, cosa vuoi che se ne faccia”
“Ma a me am srviv, e pensare che mi era anche simpatico con tuti chi denti ‘n bocca e il sorrisino facile, I fev ‘l ganz quand I recitav da pret”
“ Non c’è l’hai un’altra raschietta per il teak? Mi pareva di averne vista una in sala macchine”
“Ma cosa c’entra, ne ho altre ventotto di ogni foggia e dimensione ma se ti prestano una cosa in mare la restituisci appena puoi e tenuta meglio di prima”
Prestare un attrezzo per il babbo è come donare un organo interno, preferisce andare in ferramenta, comprarlo nuovo e regalartelo, solo per non avere la delusione che poi te lo scordi o glielo rompi.
Sta guardando con disprezzo la barca del ricciolino di merda, che sarebbe poi Johnny Dorelli, e si accende sprezzante una MS.
“Ma non puoi chiederla indietro?”
“I è lù chi ‘s la dev arcordar”
Conversazione senza speranza.
Ormai ci sono abituato a come gli equipaggi si muovano con familiarità e indifferenza nel famoso Jet set.
Non hanno fascino, non hanno presa, vengono considerati per come sono come persone, la fama e la notorietà non contano se sei stronzo o se vomiti fuoribordo.
I più invisi sono gli Arabi, pagano benissimo ma non c’è prezzo per la coscienza e l’orgoglio.
Trafficanti di armi con yacht di 100 mt, troie cammelli e coca ad ogni sosta a Porto Cervo, debiti milionari in ogni porto, rubinetti d’oro nei cessi e filodiffusione, jaccuzzi in camera e due elicotteri sul ponte superiore.
La feccia.
Poi i ricchi e gli arricchiti che non sanno una minchia di mare, che lasciano gli equipaggi ad attenderli in porto per mesi, che usano la barca per rappresentanza, accettabili ma di solito hanno barche come ferri da stiro, fastose ed inutili, poco marine.
Poi quelli che amano il mare ma di origini terazzane, che si affannano a dimostrare la loro perizia inforcando improbabili cappellini da comandante, hanno barche serie e trattano l’equipaggio con rispetto, ogni tanto incappano in una figura meschina cercando di andare oltre i loro limiti, vengono trattati come bambini in mare e con deferenza in porto tanto per dargli soddisfazione.
Quelli che sono marinai veri sono pochi e pericolosi, osano l’impossibile e ingaggiano fra loro sfide epiche, gli equipaggi si fanno un mazzo tanto ma di solito apprezzano.
I navigatori solitari sono teste di cazzo, primo perché non danno da mangiare a nessuno, secondo perché poi per andarli a riprendere quando sono in difficoltà ci rimette sempre la vita qualcuno.
Di solito gli equipaggi saltano da una categoria all’altra a seconda delle esigenze e delle richieste,
il babbo è rimbalzato fra industriali dell’acciaio e del marmo, famosi avvocati e gommisti per poi fermarsi, penso per sempre, con il Signor B., un vero battitore libero.
il Bà è molto poco propenso al compromesso.
Che stia parlando con il suo amico Bourghine , con l’Aga Kan , con L’avvocato con il suo allievo Falk, dice la sua.
“Bà ma ‘nt sen ‘n sogezion?”
“Pens mentre I’ en al cess, tutti rossi n’t ‘l mus, I’ en omi, come me e come te”
Vipsssssssssssssssssssssss
“No, riciulin ‘d merda”
“Dai bà, se la sarà scordata, cosa vuoi che se ne faccia”
“Ma a me am srviv, e pensare che mi era anche simpatico con tuti chi denti ‘n bocca e il sorrisino facile, I fev ‘l ganz quand I recitav da pret”
“ Non c’è l’hai un’altra raschietta per il teak? Mi pareva di averne vista una in sala macchine”
“Ma cosa c’entra, ne ho altre ventotto di ogni foggia e dimensione ma se ti prestano una cosa in mare la restituisci appena puoi e tenuta meglio di prima”
Prestare un attrezzo per il babbo è come donare un organo interno, preferisce andare in ferramenta, comprarlo nuovo e regalartelo, solo per non avere la delusione che poi te lo scordi o glielo rompi.
Sta guardando con disprezzo la barca del ricciolino di merda, che sarebbe poi Johnny Dorelli, e si accende sprezzante una MS.
“Ma non puoi chiederla indietro?”
“I è lù chi ‘s la dev arcordar”
Conversazione senza speranza.
Ormai ci sono abituato a come gli equipaggi si muovano con familiarità e indifferenza nel famoso Jet set.
Non hanno fascino, non hanno presa, vengono considerati per come sono come persone, la fama e la notorietà non contano se sei stronzo o se vomiti fuoribordo.
I più invisi sono gli Arabi, pagano benissimo ma non c’è prezzo per la coscienza e l’orgoglio.
Trafficanti di armi con yacht di 100 mt, troie cammelli e coca ad ogni sosta a Porto Cervo, debiti milionari in ogni porto, rubinetti d’oro nei cessi e filodiffusione, jaccuzzi in camera e due elicotteri sul ponte superiore.
La feccia.
Poi i ricchi e gli arricchiti che non sanno una minchia di mare, che lasciano gli equipaggi ad attenderli in porto per mesi, che usano la barca per rappresentanza, accettabili ma di solito hanno barche come ferri da stiro, fastose ed inutili, poco marine.
Poi quelli che amano il mare ma di origini terazzane, che si affannano a dimostrare la loro perizia inforcando improbabili cappellini da comandante, hanno barche serie e trattano l’equipaggio con rispetto, ogni tanto incappano in una figura meschina cercando di andare oltre i loro limiti, vengono trattati come bambini in mare e con deferenza in porto tanto per dargli soddisfazione.
Quelli che sono marinai veri sono pochi e pericolosi, osano l’impossibile e ingaggiano fra loro sfide epiche, gli equipaggi si fanno un mazzo tanto ma di solito apprezzano.
I navigatori solitari sono teste di cazzo, primo perché non danno da mangiare a nessuno, secondo perché poi per andarli a riprendere quando sono in difficoltà ci rimette sempre la vita qualcuno.
Di solito gli equipaggi saltano da una categoria all’altra a seconda delle esigenze e delle richieste,
il babbo è rimbalzato fra industriali dell’acciaio e del marmo, famosi avvocati e gommisti per poi fermarsi, penso per sempre, con il Signor B., un vero battitore libero.
il Bà è molto poco propenso al compromesso.
Che stia parlando con il suo amico Bourghine , con l’Aga Kan , con L’avvocato con il suo allievo Falk, dice la sua.
“Bà ma ‘nt sen ‘n sogezion?”
“Pens mentre I’ en al cess, tutti rossi n’t ‘l mus, I’ en omi, come me e come te”
Vipsssssssssssssssssssssss
mercoledì 23 settembre 2009
Leone
Il Sergente York è arrivato.
Anche se la stagione è già avanzata lui arriva ora, fa le cose con calma.
E’ al comando di una barca splendida, tenuta in maniera impeccabile, la Croce del Sud.
Il Sergente York è molto inglese, alto, mascella quadrata, voce profondissima, un paio di basette che sembrano due cespugli, le ha sempre portate così.
Si muove con calma, quasi con imponenza, parla solo dopo averci pensato per bene e sa essere buffo e tagliente.
I suoi principali ed il suo equipaggio di solito lo adorano e lo viziano, ha qualche anno più del babbo e la sua criniera è ormai bianca.
Perché lui era Leone.
Secondo il bà ora si prende tutto il tempo perché quel settembre maledetto ha dato tutto, ora si riposa.
Ha dato tutto sul Monte D’Arma, su per la Foce, a Bergiola e sul Frigido.
Quel 16 settembre ne erano successe di cose, nessuna bella.
Lo zaino trovato di fianco al soldato tedesco morto conteneva un portafoglio, dentro c’era un documento di un vigile urbano di Bergiola.
Abbastanza per iniziare la rappresaglia, "Uno dei miei, dieci civili" , diceva la regola.
Non furono 10 ma 72, falciati nelle loro case, radunati nella scuola e mitragliati, quelli fortunati morirono subito, gli altri bruciati, i lanciafiamme facevano un rumore sordo mentre le pareti si incendiavano.
Ventisei bambini, gli altri donne ed anziani, la mano della sedicesima divisione corazzata delle SS e, che dio li maledica, delle brigate nere di Carrara, gente che andava per funghi in quei boschi e che magari aveva lo stesso cognome di gran parte delle vittime, Dell’Amico.
Arrivarono tardi, sterpi in faccia , sudore che dalle mani cola sul tuo compagno di sempre, il fucile mitragliatore Sten.
Corsa sui sentieri, sulle pietre rese scivolose dalle foglie di castagno marcite, fuoco, fuoco negli occhi e quell’odore, non può essere un uomo che brucia che manda quell’odore, è lo spregio di chi vive, di chi ha fame, di chi è morto,.
Lacrime, per il fumo, per quello che vedi, per gli uomini che sono scappati ed ora tornano increduli e bestemmiano contro di loro, contro di te.
“Tè partigian, dov t’er?”
E corsa dietro quei maledetti, non tutti insieme, uno alla volta , uno per uno, da ora in avanti finché non sarà finita, e anche dopo.
Fino alle fosse del Frigido lo stesso giorno, con 159 anime in un buco, coperte di terra, maledetti, cosa state facendo.
Fino al 25 Aprile, l’ultimo giorno, quando Leone si toglie il fazzoletto, per non metterlo mai più.
Arriva a bordo insieme al Ninin, un altro amico, marinaio e gran falegname, si stringono la mano con gli occhi che ridono, il vino sancisce l’incontro, celebra la riunione.
Il Sergente York guarda da lontano la sua barca, orgoglioso.
Tira su la testa e la gira verso terra dandomi la possibilità di guardare ammirato la sua basetta destra.
Inclina la testa verso l’alto.
Come se annusasse l’aria.
Anche se la stagione è già avanzata lui arriva ora, fa le cose con calma.
E’ al comando di una barca splendida, tenuta in maniera impeccabile, la Croce del Sud.
Il Sergente York è molto inglese, alto, mascella quadrata, voce profondissima, un paio di basette che sembrano due cespugli, le ha sempre portate così.
Si muove con calma, quasi con imponenza, parla solo dopo averci pensato per bene e sa essere buffo e tagliente.
I suoi principali ed il suo equipaggio di solito lo adorano e lo viziano, ha qualche anno più del babbo e la sua criniera è ormai bianca.
Perché lui era Leone.
Secondo il bà ora si prende tutto il tempo perché quel settembre maledetto ha dato tutto, ora si riposa.
Ha dato tutto sul Monte D’Arma, su per la Foce, a Bergiola e sul Frigido.
Quel 16 settembre ne erano successe di cose, nessuna bella.
Lo zaino trovato di fianco al soldato tedesco morto conteneva un portafoglio, dentro c’era un documento di un vigile urbano di Bergiola.
Abbastanza per iniziare la rappresaglia, "Uno dei miei, dieci civili" , diceva la regola.
Non furono 10 ma 72, falciati nelle loro case, radunati nella scuola e mitragliati, quelli fortunati morirono subito, gli altri bruciati, i lanciafiamme facevano un rumore sordo mentre le pareti si incendiavano.
Ventisei bambini, gli altri donne ed anziani, la mano della sedicesima divisione corazzata delle SS e, che dio li maledica, delle brigate nere di Carrara, gente che andava per funghi in quei boschi e che magari aveva lo stesso cognome di gran parte delle vittime, Dell’Amico.
Arrivarono tardi, sterpi in faccia , sudore che dalle mani cola sul tuo compagno di sempre, il fucile mitragliatore Sten.
Corsa sui sentieri, sulle pietre rese scivolose dalle foglie di castagno marcite, fuoco, fuoco negli occhi e quell’odore, non può essere un uomo che brucia che manda quell’odore, è lo spregio di chi vive, di chi ha fame, di chi è morto,.
Lacrime, per il fumo, per quello che vedi, per gli uomini che sono scappati ed ora tornano increduli e bestemmiano contro di loro, contro di te.
“Tè partigian, dov t’er?”
E corsa dietro quei maledetti, non tutti insieme, uno alla volta , uno per uno, da ora in avanti finché non sarà finita, e anche dopo.
Fino alle fosse del Frigido lo stesso giorno, con 159 anime in un buco, coperte di terra, maledetti, cosa state facendo.
Fino al 25 Aprile, l’ultimo giorno, quando Leone si toglie il fazzoletto, per non metterlo mai più.
Arriva a bordo insieme al Ninin, un altro amico, marinaio e gran falegname, si stringono la mano con gli occhi che ridono, il vino sancisce l’incontro, celebra la riunione.
Il Sergente York guarda da lontano la sua barca, orgoglioso.
Tira su la testa e la gira verso terra dandomi la possibilità di guardare ammirato la sua basetta destra.
Inclina la testa verso l’alto.
Come se annusasse l’aria.
mercoledì 9 settembre 2009
E' merito mio
Sono talmente scaramantico che odio parlarne.
Ho dei rituali, a cui faccio finta di non far caso, che accompagnano certe mie attività, soprattutto quelle che dovrebbero essere assistite dal caso o dalla fortuna.
Ovviamente non le nomino per scaramanzia.
Ho questo grande problema di accumularne in eccesso in certi periodi, ciò mi intralcia parecchio nella vita di tutti i giorni, anche perché alcune cose sono piuttosto impegnative da fare.
L’Italia aveva clamorosamente passato il turno con una probabile pastetta con il Camerun, tutti i giornali erano andati all’attacco massacrando la squadra, c’erano pure voci di massaggi particolari fra Cabrini e Rossi, ma io mi godevo la fortuna nutrendomi dei particolari del trasferimento da Vigo a Barcellona conditi dal solito silenzio stampa imposto da Bearzot, Brera era come al solito controcorrente ed incoraggiava la nazionale.
Il girone era infernale, Brasile ed Argentina, con i Verdeoro superiori a chiunque e gli Argentini con Maradona e pure incazzati per le Falkland.
La partita era iniziata con un tourbillon di colpi proibiti di Gentile a Maradona a cui rispondevano le sgarrettate di Gallego su chiunque.
La nostra formazione era la solita, ormeggio a Cugnana Verde, micro televisore Telefunken in bianco e nero con ricezione disturbata, il Signor B. che, seduto in poltrona, succhia la dentiera con un fare un po’ annoiato, il comandante in piedi in fondo al salone con la mano destra che stritola un passamano di bachelite, il cuoco seduto sul secondo scalino della scala ed io sull’ultimo con libera uscita in timoneria.
Primo tempo da taglialegna con l’Italia che resiste e distrugge, i campioni del mondo non trovano il bandolo della matassa.
Secondo tempo con una Nazionale stranamente pimpante che usa le fasce e sembra essersi trasformata in una squadra vera, dall’agitazione salgo in timoneria e mentre conto i listelli che mi separano dalla murata, non faccio in tempo a pensare “ se segniamo ora salto e mi tuffo direttamente in mare” che il mio Antognoni smarca quel puledro di Conti che con il passo da cavallino capitolino sforna un assist per il sinistro di Tardelli.
Gol.
Faccio tre passi e salto volando vestito in mare grattandomi le gambe contro il parapetto, meno male che il gommone è ormeggiato dall’altra parte e che sottobordo non stava passando nulla.
Nuoto come un forsennato fino alla scaletta e fradicio rientro in timoneria.
Giulio mi guarda perplesso mentre gli Argentini incazzati come dei dinghi rabbiosi provano a prenderci a pallonate, Zofffffffffffffffff sventa una craniata di Passarella.
Quel cane di Rossi si mangia un gol ciabattando contro Fillol.
Mi tolgo i calzoncini bagnati e la maglietta ed in mutande assisto ad una botta di culo di Conti che sulla rimessa ramazza un pallone e parte come una lippa, arriva sul fondo e mette dietro per l’altro amico particolare che insacca con l’amato sinistro.
Decido di rimanere in mutande fino alla fine della partita ma, colta un’occhiata del babbo piuttosto eloquente, mi infilo i calzoni zuppi.
Passarella mi punisce insaccando una punizione battuta al zitta senza aspettare il fischio dell’arbitro.
Casino generale, ne buttano fuori uno dei loro e la partita finisce fra le urla dell’equipaggio.
Il ricordo più marcato quel Maradona che fa vedere la maglia azzannata da Gentile ed i garretti fasciati con una benda bianca di Conti che volano sulla fascia.
Il problema vero, grosso, insormontabile è riuscire a ripetere tutto ciò contro il Brasile.
Da che listello sono saltato e soprattutto avrò mica infilato prima il piede sinistro nei calzoncini?
Ho dei rituali, a cui faccio finta di non far caso, che accompagnano certe mie attività, soprattutto quelle che dovrebbero essere assistite dal caso o dalla fortuna.
Ovviamente non le nomino per scaramanzia.
Ho questo grande problema di accumularne in eccesso in certi periodi, ciò mi intralcia parecchio nella vita di tutti i giorni, anche perché alcune cose sono piuttosto impegnative da fare.
L’Italia aveva clamorosamente passato il turno con una probabile pastetta con il Camerun, tutti i giornali erano andati all’attacco massacrando la squadra, c’erano pure voci di massaggi particolari fra Cabrini e Rossi, ma io mi godevo la fortuna nutrendomi dei particolari del trasferimento da Vigo a Barcellona conditi dal solito silenzio stampa imposto da Bearzot, Brera era come al solito controcorrente ed incoraggiava la nazionale.
Il girone era infernale, Brasile ed Argentina, con i Verdeoro superiori a chiunque e gli Argentini con Maradona e pure incazzati per le Falkland.
La partita era iniziata con un tourbillon di colpi proibiti di Gentile a Maradona a cui rispondevano le sgarrettate di Gallego su chiunque.
La nostra formazione era la solita, ormeggio a Cugnana Verde, micro televisore Telefunken in bianco e nero con ricezione disturbata, il Signor B. che, seduto in poltrona, succhia la dentiera con un fare un po’ annoiato, il comandante in piedi in fondo al salone con la mano destra che stritola un passamano di bachelite, il cuoco seduto sul secondo scalino della scala ed io sull’ultimo con libera uscita in timoneria.
Primo tempo da taglialegna con l’Italia che resiste e distrugge, i campioni del mondo non trovano il bandolo della matassa.
Secondo tempo con una Nazionale stranamente pimpante che usa le fasce e sembra essersi trasformata in una squadra vera, dall’agitazione salgo in timoneria e mentre conto i listelli che mi separano dalla murata, non faccio in tempo a pensare “ se segniamo ora salto e mi tuffo direttamente in mare” che il mio Antognoni smarca quel puledro di Conti che con il passo da cavallino capitolino sforna un assist per il sinistro di Tardelli.
Gol.
Faccio tre passi e salto volando vestito in mare grattandomi le gambe contro il parapetto, meno male che il gommone è ormeggiato dall’altra parte e che sottobordo non stava passando nulla.
Nuoto come un forsennato fino alla scaletta e fradicio rientro in timoneria.
Giulio mi guarda perplesso mentre gli Argentini incazzati come dei dinghi rabbiosi provano a prenderci a pallonate, Zofffffffffffffffff sventa una craniata di Passarella.
Quel cane di Rossi si mangia un gol ciabattando contro Fillol.
Mi tolgo i calzoncini bagnati e la maglietta ed in mutande assisto ad una botta di culo di Conti che sulla rimessa ramazza un pallone e parte come una lippa, arriva sul fondo e mette dietro per l’altro amico particolare che insacca con l’amato sinistro.
Decido di rimanere in mutande fino alla fine della partita ma, colta un’occhiata del babbo piuttosto eloquente, mi infilo i calzoni zuppi.
Passarella mi punisce insaccando una punizione battuta al zitta senza aspettare il fischio dell’arbitro.
Casino generale, ne buttano fuori uno dei loro e la partita finisce fra le urla dell’equipaggio.
Il ricordo più marcato quel Maradona che fa vedere la maglia azzannata da Gentile ed i garretti fasciati con una benda bianca di Conti che volano sulla fascia.
Il problema vero, grosso, insormontabile è riuscire a ripetere tutto ciò contro il Brasile.
Da che listello sono saltato e soprattutto avrò mica infilato prima il piede sinistro nei calzoncini?
venerdì 24 luglio 2009
CusCus
“ An’ò mai capit prchè I ‘s lavn prima i pè e poi ‘l mus”
“Babbo, è il loro rituale, non so bene come funzioni comunque penso che l’idea sia purificarsi prima di chiedere udienza al loro Dio, per cui per ultima viene sciacquata la bocca che è quella che parla”
“ Ma al’è una cosa cal fa un po’ schif, ma T sen sicur che Moametto è piac tutta ‘sta manfrina”
“Maometto, non Moametto, e comunque lui è il profeta, si rivolgono ad Allah.
Non so casa dirti, non credo che il Dio cristiano abbia stabilito il rituale dell’eucarestia come viene professato in chiesa”
“Am sa che t’à ragion, comunque anche se non è una bella cosa da vder almanc I ‘s lavn”
“Babbo, dai smettila”
“Lo dico sul serio, tutte le religioni hanno regole igieniche e sociali comuni e di buon senso, è l’interpretazione delle regole che mi turba, non magnar un salam a 45 gradi sot al sol, ani vò un genio a capir cal’è una cosa intelligente”
“Già”
Tipica conversazione che accompagna un pranzo.
Il tavolo è stretto e lungo, a me tocca il posto a capotavola incastrato fra la porta e l’albero di maestra, il babbo è di fronte a me e Giulio sul lato lungo.
Stiamo azzannando degli spaghetti all’arrabbiata molto piccanti per cui la conversazione è scivolata sul peperoncino, poi sul cuscus, poi sulla religione, finirà con lo sport o la filosofia, chi può dirlo.
Improvvisamente il comandante fa uno dei suoi numeri preferiti, lo strangolamento a singhiozzo.
Stava cercando contemporaneamente di deglutire, bere un po’ di rosso, attaccare un argomento nuovo e ridacchiare.
Attacco di tosse da MS , un singhiozzo ed il disastro.
Sputa il vino a spruzzo e mi lava, emette suoni preoccupanti basati su un rantolo sordo ed una serie di tentativi di starnuto, diventa rosso paonazzo e si alza in piedi, poggiando le nocche della mano destra sul tavolo piegandosi in avanti.
Cerco di districarmi dalla mia posizione ed accorro in soccorso, provo a dargli dei colpi sulla schiena ma il rantolo continua, lo afferro sotto le ascelle e improvviso una manovra stile Heimlich con non poca difficoltà, ha il torace così largo che non riesco a chiudere bene le mani sotto il diaframma.
Mi sto cominciando a preoccupare quando starnutisce forte e tira un respiro affamato d’aria.
Tutto finito.
Ha tre spaghetti che gli escono dal naso, un capolavoro che non gli era mai riuscito, si ricompone velocemente, puliamo il tavolo, apparecchiamo e passiamo al secondo.
“Bà al er mei se T magnav ‘L CusCus”
“I’m fa acidità”
“Babbo, è il loro rituale, non so bene come funzioni comunque penso che l’idea sia purificarsi prima di chiedere udienza al loro Dio, per cui per ultima viene sciacquata la bocca che è quella che parla”
“ Ma al’è una cosa cal fa un po’ schif, ma T sen sicur che Moametto è piac tutta ‘sta manfrina”
“Maometto, non Moametto, e comunque lui è il profeta, si rivolgono ad Allah.
Non so casa dirti, non credo che il Dio cristiano abbia stabilito il rituale dell’eucarestia come viene professato in chiesa”
“Am sa che t’à ragion, comunque anche se non è una bella cosa da vder almanc I ‘s lavn”
“Babbo, dai smettila”
“Lo dico sul serio, tutte le religioni hanno regole igieniche e sociali comuni e di buon senso, è l’interpretazione delle regole che mi turba, non magnar un salam a 45 gradi sot al sol, ani vò un genio a capir cal’è una cosa intelligente”
“Già”
Tipica conversazione che accompagna un pranzo.
Il tavolo è stretto e lungo, a me tocca il posto a capotavola incastrato fra la porta e l’albero di maestra, il babbo è di fronte a me e Giulio sul lato lungo.
Stiamo azzannando degli spaghetti all’arrabbiata molto piccanti per cui la conversazione è scivolata sul peperoncino, poi sul cuscus, poi sulla religione, finirà con lo sport o la filosofia, chi può dirlo.
Improvvisamente il comandante fa uno dei suoi numeri preferiti, lo strangolamento a singhiozzo.
Stava cercando contemporaneamente di deglutire, bere un po’ di rosso, attaccare un argomento nuovo e ridacchiare.
Attacco di tosse da MS , un singhiozzo ed il disastro.
Sputa il vino a spruzzo e mi lava, emette suoni preoccupanti basati su un rantolo sordo ed una serie di tentativi di starnuto, diventa rosso paonazzo e si alza in piedi, poggiando le nocche della mano destra sul tavolo piegandosi in avanti.
Cerco di districarmi dalla mia posizione ed accorro in soccorso, provo a dargli dei colpi sulla schiena ma il rantolo continua, lo afferro sotto le ascelle e improvviso una manovra stile Heimlich con non poca difficoltà, ha il torace così largo che non riesco a chiudere bene le mani sotto il diaframma.
Mi sto cominciando a preoccupare quando starnutisce forte e tira un respiro affamato d’aria.
Tutto finito.
Ha tre spaghetti che gli escono dal naso, un capolavoro che non gli era mai riuscito, si ricompone velocemente, puliamo il tavolo, apparecchiamo e passiamo al secondo.
“Bà al er mei se T magnav ‘L CusCus”
“I’m fa acidità”
sabato 18 luglio 2009
Cruditè
“Giulio, sono pronte le mie cruditè?”
Giulio bestemmia e bofonchia per un minuto buono prima di aprire il frigo, prendere tutte le verdurine fresche, sminuzzarle ad una velocità sorprendente con un coltello grosso come una durlindana e frullarle nel mixer insieme al ghiaccio.
Proprio come piace alla Grinza.
E’ il nomignolo che danno il cuoco ed il Comandante alla Signora S. e devo dire che è piuttosto calzante.
Non ha un brano di pelle in tiro, è magrissima e si nutre di cellulosa, probabilmente ha lo stomaco modificato come i bovini.
Il risultato di questa dieta è sconvolgente, ha rughe in tutto il corpo e non fanno un bell’effetto, la cresta delle rughe è abbronzata, la piega di pelle all’interno è bianca, sembra uno sharpei tigrato anoressico.
Forse è per questo che i signori dormono in due cabine separate, l’attrazione di un tempo deve essere scemata.
Giulio è un cuoco con i controcazzi, ha lavorato in ottimi ristoranti, solo in seguito si è scoperto marinaio.
Cucinare solo verdure lo fa innervosire, si infuria specialmente quando gli fanno cucinare il piatto del Generale, è basato su una ricetta di un sedicente generale che venne in crociera qualche anno fa, per compiacerlo gli fecero fare questa misera teglia di verdure al forno che da quel momento è diventato il piatto più richiesto dalla Signora.
“Giulio, poi per questa sera mi prepari il piatto del Generale, che ne ho proprio voglia?”
Giulio impazzisce, stritola una mozzarella che gli esce schizzando fra le dita, colpisce con il coltello un tagliere che si schianta a metà e comincia a tirar fuori dal freezer tutto quello che gli capita sottomano.
“Giulio, sta calm”
“Va fora ninin, pr piacer”
Il babbo mi prende per il gomito e mi porta in timoneria, passiamo la giornata lucidando gli ottoni
mentre in cucina si sente uno sferragliare sordo.
Alla richiesta urlata dalla Grinza “ Giulio, mi prepari il mio cocktail’” sapendo che consiste nello spregevole succo di arancia mescolato con dell’ottimo champagne mi immagino una reazione violenta, Giulio esce dalla cucina indossando un cappello da cuoco, è sbarbato e profumato e sorride benevolo.
Posa il secchiello del ghiaccio, miscela i due liquidi e serve di contorno piccoli pezzi di verdura conditi con un pinzimonio profumatissimo.
Poi si gira e dice a me e al babbo che giù è pronto.
E’ mezzanotte, stiamo sempre mangiando, provo a rifiutare la Sacher torte, Giulio mi indica con la testa il tagliere sfondato.
A me la cioccolata è sempre piaciuta
Giulio bestemmia e bofonchia per un minuto buono prima di aprire il frigo, prendere tutte le verdurine fresche, sminuzzarle ad una velocità sorprendente con un coltello grosso come una durlindana e frullarle nel mixer insieme al ghiaccio.
Proprio come piace alla Grinza.
E’ il nomignolo che danno il cuoco ed il Comandante alla Signora S. e devo dire che è piuttosto calzante.
Non ha un brano di pelle in tiro, è magrissima e si nutre di cellulosa, probabilmente ha lo stomaco modificato come i bovini.
Il risultato di questa dieta è sconvolgente, ha rughe in tutto il corpo e non fanno un bell’effetto, la cresta delle rughe è abbronzata, la piega di pelle all’interno è bianca, sembra uno sharpei tigrato anoressico.
Forse è per questo che i signori dormono in due cabine separate, l’attrazione di un tempo deve essere scemata.
Giulio è un cuoco con i controcazzi, ha lavorato in ottimi ristoranti, solo in seguito si è scoperto marinaio.
Cucinare solo verdure lo fa innervosire, si infuria specialmente quando gli fanno cucinare il piatto del Generale, è basato su una ricetta di un sedicente generale che venne in crociera qualche anno fa, per compiacerlo gli fecero fare questa misera teglia di verdure al forno che da quel momento è diventato il piatto più richiesto dalla Signora.
“Giulio, poi per questa sera mi prepari il piatto del Generale, che ne ho proprio voglia?”
Giulio impazzisce, stritola una mozzarella che gli esce schizzando fra le dita, colpisce con il coltello un tagliere che si schianta a metà e comincia a tirar fuori dal freezer tutto quello che gli capita sottomano.
“Giulio, sta calm”
“Va fora ninin, pr piacer”
Il babbo mi prende per il gomito e mi porta in timoneria, passiamo la giornata lucidando gli ottoni
mentre in cucina si sente uno sferragliare sordo.
Alla richiesta urlata dalla Grinza “ Giulio, mi prepari il mio cocktail’” sapendo che consiste nello spregevole succo di arancia mescolato con dell’ottimo champagne mi immagino una reazione violenta, Giulio esce dalla cucina indossando un cappello da cuoco, è sbarbato e profumato e sorride benevolo.
Posa il secchiello del ghiaccio, miscela i due liquidi e serve di contorno piccoli pezzi di verdura conditi con un pinzimonio profumatissimo.
Poi si gira e dice a me e al babbo che giù è pronto.
E’ mezzanotte, stiamo sempre mangiando, provo a rifiutare la Sacher torte, Giulio mi indica con la testa il tagliere sfondato.
A me la cioccolata è sempre piaciuta
Felini
“Ninin noi stari al sol che ‘t sen già pù ner d’un Dubat”
“Eh?”
“Mio giovine virgulto, se continui con questa reiterata esposizione ai raggi solari diventerai talmente nero da essere assimilabile a qualche selvaggia popolazione dell’Africa come i Dubat o gli Zulù”
Vado a controllarmi allo specchio, cosa che nell’ultimo mese non ho fatto spesso, e mi trovo davanti un selvaggio.
I capelli vanno in tutte le direzioni anche se li ho un po’ accorciati davanti agli occhi per evitare l’effetto alga davanti alla maschera durante le immersioni, ho un filo di barba sul mento che settimanalmente rado con il rasoio del babbo tagliandomi sistematicamente e sono ingrossato grazie al lavoro e alle cure di Giulio.
Però il babbo esagera, sono nero ma non come un Dubat.
Ho il colore di Babinga.
Babinga è il bagnino ad interim del mio bagno.
I bagnini di Marina sono figure mitiche, giovani energumeni che compaiono solo d’estate, in grado di mettere a posto la spiaggia, salvare un bagnante, sgridare i bimbi che giocano a pallone e trombarsi le Parmigiane in cabina il tutto contemporaneamente.
Nell’edizione dei Giochi senza frontiere tenutasi sulla spiaggia una squadra composta da soli bagnini ha stabilito il record di punti assoluto, li abbiamo fatti a pezzi vincendo tutte le prove, compreso il Fil Rouge.
Il mio bagno è l’unico ad avere un bagnino debosciato, tanto ci pensano Babinga e la sua banda.
Sono giovani studenti universitari che sonnecchiano sulle sdraio guardando tette e culi, poi verso il tramonto mettono in piedi spettacoli vari.
Gare di salto in alto nell’acqua, salti mortali, selvagge partite di pallone sulla battigia, gare di velocità e di resistenza, tuffi, piramidi umane, un Circo molto apprezzato da tutti.
E se affoga qualcuno parte Babinga, scuro color cioccolato,con un sorriso simpaticissimo ed i capelli neri ricci, se ne fotte del pattino lui, e riporta lo sfigato a riva a nuoto, poi riprende a giocare a frisbee.
Di tutta la banda il più rispettato è il Puma.
E’ un tipo strano che tutti trattano con deferenza, d’altra parte con quel soprannome non potrebbe essere altrimenti, solo che non coincide propriamente con il suo aspetto fisico.
E’ grasso e flaccido, bianco di incarnato e sta sempre all’ombra, non è nemmeno tanto alto e porta un capellino da marinaretto con sotto dei RayBan a specchio.
Babinga gli porta un gelato all’ora e lui ghigna contento, non l’ho mai sentito parlare.
L’ho osservato a lungo aspettando quel guizzo felino che sicuramente quel corpo strano gli concede, quella furia selvaggia che le sue braccia magre sanno scatenare, quel ruggito che la sua gola muta è in grado di emettere.
Nulla.
Con immenso rispetto mi sono avvicinato a Babinga e gli ho chiesto lumi:
“Il Puma è un genio, se non ci fosse lui a passarci i compiti col cazzo che riusciremo a passare gli esami all’università. Gli voglio bene al mio Pumaccio”
Pumaccio significa guanciale in dialetto.
Miaooooooooooooo
“Eh?”
“Mio giovine virgulto, se continui con questa reiterata esposizione ai raggi solari diventerai talmente nero da essere assimilabile a qualche selvaggia popolazione dell’Africa come i Dubat o gli Zulù”
Vado a controllarmi allo specchio, cosa che nell’ultimo mese non ho fatto spesso, e mi trovo davanti un selvaggio.
I capelli vanno in tutte le direzioni anche se li ho un po’ accorciati davanti agli occhi per evitare l’effetto alga davanti alla maschera durante le immersioni, ho un filo di barba sul mento che settimanalmente rado con il rasoio del babbo tagliandomi sistematicamente e sono ingrossato grazie al lavoro e alle cure di Giulio.
Però il babbo esagera, sono nero ma non come un Dubat.
Ho il colore di Babinga.
Babinga è il bagnino ad interim del mio bagno.
I bagnini di Marina sono figure mitiche, giovani energumeni che compaiono solo d’estate, in grado di mettere a posto la spiaggia, salvare un bagnante, sgridare i bimbi che giocano a pallone e trombarsi le Parmigiane in cabina il tutto contemporaneamente.
Nell’edizione dei Giochi senza frontiere tenutasi sulla spiaggia una squadra composta da soli bagnini ha stabilito il record di punti assoluto, li abbiamo fatti a pezzi vincendo tutte le prove, compreso il Fil Rouge.
Il mio bagno è l’unico ad avere un bagnino debosciato, tanto ci pensano Babinga e la sua banda.
Sono giovani studenti universitari che sonnecchiano sulle sdraio guardando tette e culi, poi verso il tramonto mettono in piedi spettacoli vari.
Gare di salto in alto nell’acqua, salti mortali, selvagge partite di pallone sulla battigia, gare di velocità e di resistenza, tuffi, piramidi umane, un Circo molto apprezzato da tutti.
E se affoga qualcuno parte Babinga, scuro color cioccolato,con un sorriso simpaticissimo ed i capelli neri ricci, se ne fotte del pattino lui, e riporta lo sfigato a riva a nuoto, poi riprende a giocare a frisbee.
Di tutta la banda il più rispettato è il Puma.
E’ un tipo strano che tutti trattano con deferenza, d’altra parte con quel soprannome non potrebbe essere altrimenti, solo che non coincide propriamente con il suo aspetto fisico.
E’ grasso e flaccido, bianco di incarnato e sta sempre all’ombra, non è nemmeno tanto alto e porta un capellino da marinaretto con sotto dei RayBan a specchio.
Babinga gli porta un gelato all’ora e lui ghigna contento, non l’ho mai sentito parlare.
L’ho osservato a lungo aspettando quel guizzo felino che sicuramente quel corpo strano gli concede, quella furia selvaggia che le sue braccia magre sanno scatenare, quel ruggito che la sua gola muta è in grado di emettere.
Nulla.
Con immenso rispetto mi sono avvicinato a Babinga e gli ho chiesto lumi:
“Il Puma è un genio, se non ci fosse lui a passarci i compiti col cazzo che riusciremo a passare gli esami all’università. Gli voglio bene al mio Pumaccio”
Pumaccio significa guanciale in dialetto.
Miaooooooooooooo
lunedì 13 luglio 2009
Goofy
Oggi pomeriggio, dopo l’abituale gita con Il Signor B. e la Signora S. alla spiaggia più isolata dell’arcipelago ed un pasto eccessivamente abbondante propostomi da Giulio, mi sono sparato all’ombra assorto nelle mie letture.
Amo tantissimo i libri di avventura, Zane Grey, London, soprattutto Hemingway, Kipling, Conrad, di solito vengono divorati con golosità, ma la pennichella incombente mi spinge verso l’altra passione, i giornalini.
Attacco con fervore un SuperPippo formato gigante che sicuramente mi farà gustosamente sprofondare nel sonno ridacchiando, quando vengo intercettato dal Babbo.
Mi guarda torvo, il problema è che a lui Pippo è simpatico, ma gli torna in testa ancora la guerra.
Pippo era il ricognitore degli americani, un piccolo caccia con una bomba sola, tutte le sere al tramonto partiva da Livorno e si dirigeva verso la linea Gotica, sorvolava un po’ la zona e prima di andarsene faceva una picchiata e sganciava la bomba, di solito vicino ad un bunker di tedeschi o comunque lontano dalla popolazione.
Era una presenza tutto sommato poco fastidiosa, la gente lo usava come orologio tanta era la sua puntualità.
“ Che ora ad’è?”
“Pippo I à sganciat mò, al’en le seta”
Fino al compleanno del babbo, ricca festa a base di semolino dolce con mozzicone di candela sopra, Pippo sgancia e centra l’orto, la casa trema e finiscono tutti sotto il tavolino, impiastrati di semolino ma senza ferite.
Dopo quell’episodio decidono di sfollare al monte.
Secondo round.
Il babbo a caccia di muggini con le mani sotto le alghe della fossa maestra, rombo lontano di aeroplano.
“’A’m tir su dall’acqua e à cerc un post pr rmpiatarm. ‘L Mrdon I ‘m ved e mi punta dritto, cos I vò da un ninin che corre disperato, si abbassa e vola a pochi metri dal suolo.
Faccio in tempo a vederlo, ha il casco e gli occhialoni, I è un ner con tanti denti bianchi e mentre I rid I ‘m spar.
Mi giro e corro disperato tra due file di traccianti , mi sorvola ed i bossoli delle mitragliatrici mi cadono tutto intorno, mentre vira vedo un tubo della fogna che sbuca sulla fossa, è strettissimo e non sono sicuro di entrarci, mi ci tuffo dentro a braccia tese, in perfetto stile.
Ci entro a stento e faccio fatica a respirare, sento il rombo e qualche colpo di mitraglia lontano da me, non ha visto dove mi sono infilato, poi si allontana.
‘Fanculo a lui e a Walt Disney”
Yuk Yuk
Amo tantissimo i libri di avventura, Zane Grey, London, soprattutto Hemingway, Kipling, Conrad, di solito vengono divorati con golosità, ma la pennichella incombente mi spinge verso l’altra passione, i giornalini.
Attacco con fervore un SuperPippo formato gigante che sicuramente mi farà gustosamente sprofondare nel sonno ridacchiando, quando vengo intercettato dal Babbo.
Mi guarda torvo, il problema è che a lui Pippo è simpatico, ma gli torna in testa ancora la guerra.
Pippo era il ricognitore degli americani, un piccolo caccia con una bomba sola, tutte le sere al tramonto partiva da Livorno e si dirigeva verso la linea Gotica, sorvolava un po’ la zona e prima di andarsene faceva una picchiata e sganciava la bomba, di solito vicino ad un bunker di tedeschi o comunque lontano dalla popolazione.
Era una presenza tutto sommato poco fastidiosa, la gente lo usava come orologio tanta era la sua puntualità.
“ Che ora ad’è?”
“Pippo I à sganciat mò, al’en le seta”
Fino al compleanno del babbo, ricca festa a base di semolino dolce con mozzicone di candela sopra, Pippo sgancia e centra l’orto, la casa trema e finiscono tutti sotto il tavolino, impiastrati di semolino ma senza ferite.
Dopo quell’episodio decidono di sfollare al monte.
Secondo round.
Il babbo a caccia di muggini con le mani sotto le alghe della fossa maestra, rombo lontano di aeroplano.
“’A’m tir su dall’acqua e à cerc un post pr rmpiatarm. ‘L Mrdon I ‘m ved e mi punta dritto, cos I vò da un ninin che corre disperato, si abbassa e vola a pochi metri dal suolo.
Faccio in tempo a vederlo, ha il casco e gli occhialoni, I è un ner con tanti denti bianchi e mentre I rid I ‘m spar.
Mi giro e corro disperato tra due file di traccianti , mi sorvola ed i bossoli delle mitragliatrici mi cadono tutto intorno, mentre vira vedo un tubo della fogna che sbuca sulla fossa, è strettissimo e non sono sicuro di entrarci, mi ci tuffo dentro a braccia tese, in perfetto stile.
Ci entro a stento e faccio fatica a respirare, sento il rombo e qualche colpo di mitraglia lontano da me, non ha visto dove mi sono infilato, poi si allontana.
‘Fanculo a lui e a Walt Disney”
Yuk Yuk
venerdì 10 luglio 2009
Cavad
Stamani mi sono alzato presto, poco dopo l’alba.
Non so perché avevo una strana agitazione addosso, forse nostalgia della mamma e di mio fratello, forse mi mancano i giochi e le follie in motorino con gli amici, non so.
Sono salito in coperta e mi sono piazzato di poppa seduto sulla falchetta, con la mano destra attaccata alla sartia ed ho inalato goloso l’aria del mattino, piena di umido e di odori.
Sulla spiaggia c’è un cavallo, non sapevo nemmeno ci fossero a Cala di Volpe i cavalli, che bruca pacifico un cespuglio ai limiti della rena, ha alzato la testa, annusato qualcosa con le froge e piano piano è sparito dietro le dune.
Ho sempre guardato i cavalli con un po’ di diffidenza, riesco ad entrare in sintonia con qualsiasi tipo di animale ma l’equino mi turba.
Il babbo era matto per queste bestie quando era bambino, suo zio li allevava e lui mi racconta che la sensazione di libertà provata cavalcando a pelo è meravigliosa.
La nonna aveva stroncato questa passione, il suo primo figlio, Tonino, era morto a tredici anni per una piccola ferita riportata guadando la Fossa Maestra con un baio, la nonna era entrata in ospedale bionda e madre ed era uscita dopo quarantotto ore con la testa canuta ed un figlio morto tra le braccia.
Tetano.
Da piccolo andavo con il babbo a caccia di merda, come tutti i marinai aveva una passione ed un attaccamento per il suo orto, simbolo della sua terra, praticamente morbosa.
Quando serviva il letame andavamo ad un piccolo maneggio al Cinquale, lo stalliere era un piccolo uomo molto muscoloso, con gli occhi azzurri di un bambino e tanti tatuaggi sulle braccia.
Era stato un fantino, poi la galera per più di dieci anni, non so per cosa, era timidissimo e parlava a stento, sembrava un buon uomo.
Viveva, per gentile concessione del padrone del maneggio, in un box per cavalli, in una condizione di così palese povertà, che mi veniva spesso da piangere ripensandoci a casa.
Cinquecento lire alla settimana, vitto e alloggio per accudire tutti i cavalli, era meno di quanto spendessi io in gelati e giornalini.
Il babbo, pagato il letame, gli allungava una mancia pari al suo stipendio di sei mesi, lo stalliere provava a rifiutare, il babbo lo aiutava a caricare la merda sull’Apecar che ci facevamo prestare all’uopo da Nuvola Rossa.
L’ultima volta che l’ho visto gli mancava la mano sinistra, un incidente sul lavoro, aveva gli stessi occhi blu stupiti, tristi, ed era sempre grato al padrone che gli dava comunque un lavoro a lui, terrone, fantino, galerano e con una mano di meno.
Per quattrocento lire alla settimana perché un monco spala peggio la merda.
Non so perché avevo una strana agitazione addosso, forse nostalgia della mamma e di mio fratello, forse mi mancano i giochi e le follie in motorino con gli amici, non so.
Sono salito in coperta e mi sono piazzato di poppa seduto sulla falchetta, con la mano destra attaccata alla sartia ed ho inalato goloso l’aria del mattino, piena di umido e di odori.
Sulla spiaggia c’è un cavallo, non sapevo nemmeno ci fossero a Cala di Volpe i cavalli, che bruca pacifico un cespuglio ai limiti della rena, ha alzato la testa, annusato qualcosa con le froge e piano piano è sparito dietro le dune.
Ho sempre guardato i cavalli con un po’ di diffidenza, riesco ad entrare in sintonia con qualsiasi tipo di animale ma l’equino mi turba.
Il babbo era matto per queste bestie quando era bambino, suo zio li allevava e lui mi racconta che la sensazione di libertà provata cavalcando a pelo è meravigliosa.
La nonna aveva stroncato questa passione, il suo primo figlio, Tonino, era morto a tredici anni per una piccola ferita riportata guadando la Fossa Maestra con un baio, la nonna era entrata in ospedale bionda e madre ed era uscita dopo quarantotto ore con la testa canuta ed un figlio morto tra le braccia.
Tetano.
Da piccolo andavo con il babbo a caccia di merda, come tutti i marinai aveva una passione ed un attaccamento per il suo orto, simbolo della sua terra, praticamente morbosa.
Quando serviva il letame andavamo ad un piccolo maneggio al Cinquale, lo stalliere era un piccolo uomo molto muscoloso, con gli occhi azzurri di un bambino e tanti tatuaggi sulle braccia.
Era stato un fantino, poi la galera per più di dieci anni, non so per cosa, era timidissimo e parlava a stento, sembrava un buon uomo.
Viveva, per gentile concessione del padrone del maneggio, in un box per cavalli, in una condizione di così palese povertà, che mi veniva spesso da piangere ripensandoci a casa.
Cinquecento lire alla settimana, vitto e alloggio per accudire tutti i cavalli, era meno di quanto spendessi io in gelati e giornalini.
Il babbo, pagato il letame, gli allungava una mancia pari al suo stipendio di sei mesi, lo stalliere provava a rifiutare, il babbo lo aiutava a caricare la merda sull’Apecar che ci facevamo prestare all’uopo da Nuvola Rossa.
L’ultima volta che l’ho visto gli mancava la mano sinistra, un incidente sul lavoro, aveva gli stessi occhi blu stupiti, tristi, ed era sempre grato al padrone che gli dava comunque un lavoro a lui, terrone, fantino, galerano e con una mano di meno.
Per quattrocento lire alla settimana perché un monco spala peggio la merda.
giovedì 25 giugno 2009
Lopon
“Bà, ma com'è che ‘L Lopon non aveva vinto la gara di nuoto con il costume di lana?”
“Prori cuscì”
Il Lopone è il cugino del comandante ed è la sua fotocopia ingrandita.
Il babbo viaggia abbondantemente oltre i cento chili ma non è un gigante, il Lopone si.
Ora che ha più di settant’anni sfora il metro e novanta, per cui ai tempi della gara di nuoto doveva essere vicino ai due metri.
Era l’allievo prediletto di mio nonno, ‘L Nostrom, quando le barche erano solo a vela ed un fisico del genere doveva essere incredibile visto a quaranta metri d’altezza a dare una mano di terzaroli.
Fatto sta che adesso che è in pensione il Lopone è il guru della scuola di vela ed ha allevato qualche generazione di disgraziati ed un paio di campioni del mondo.
Ha un approccio un po’ burbero ma è buonissimo, è un’istituzione ma sono epiche le sue incazzature a scopo didattico.
La prima volta che l’ho visto era intento a tirare dei tacchi di legno di peso stimato sui due chili a dei neofiti che non si decidevano a staccarsi da riva con i loro Optimist.
Al debutto in barca a vela avevo la barra del timone che mi tremava tra le mani, lui era appollaiato dietro di me e mi guardava senza dire niente, poi :
“Pugg”
io non sapevo cosa fare,
“Pugg”
titubante comincio a stringere il vento,
“A tò dit ‘d Puggiar” seguito da un calcio violento alla barra nella direzione giusta.
Diciamo che non ho più avuto dubbi su poggiare e orzare.
“Angelo, non ci vedo, c’è quel ragazzo lì davanti”
“Sputi”
“Come?”
“Sputi, cuscì I impar a non metrs ‘n mez”
Sputo e centro il ragazzo dietro la nuca, quando sono al timone comando io.
Mi ha insegnato la pazienza, la pesca a traina, la bellezza del silenzio, la lettura dei libri di avventura e quanto è importante avere opinioni proprie.
“ I er ‘l pù brav a notar, ma ai tempi del ventennio gli atleti dovevano essere per forza iscritti alla gioventù fascista. Avevano organizzato il campionato italiano a Marina e tracciato il campo gara tirando delle corsie di boette tra un pontile e l’altro. Si presentano gli atleti provenienti da tutt’Italia, tutti tirati e con il costume aderente a mezza vita, la mascella in fuori ed i capelli pettinati con la riga da una parte.
La gara erano i quattrocento metri stile libero, in fondo al pontile di partenza, al di fuori delle corsie, apparve un orso biondo con un costume intero di lana pesante, come quello dei lottatori di lotta libera.
L’ Lopon.
Si tuffò insieme agli altri e dopo centro metri era ultimo, poi mise in azione le pagaie e le pinne che aveva per mani e piedi ed arrivò davanti a tutti tra gli applausi della gente e le grida di rabbia dei Gerarchi.
Poi scappò a nuoto.
Ecco come ha fatto a non vincere i campionati italiani nuotando con un costume di lana”
Ti voglio bene Angelo.
“Prori cuscì”
Il Lopone è il cugino del comandante ed è la sua fotocopia ingrandita.
Il babbo viaggia abbondantemente oltre i cento chili ma non è un gigante, il Lopone si.
Ora che ha più di settant’anni sfora il metro e novanta, per cui ai tempi della gara di nuoto doveva essere vicino ai due metri.
Era l’allievo prediletto di mio nonno, ‘L Nostrom, quando le barche erano solo a vela ed un fisico del genere doveva essere incredibile visto a quaranta metri d’altezza a dare una mano di terzaroli.
Fatto sta che adesso che è in pensione il Lopone è il guru della scuola di vela ed ha allevato qualche generazione di disgraziati ed un paio di campioni del mondo.
Ha un approccio un po’ burbero ma è buonissimo, è un’istituzione ma sono epiche le sue incazzature a scopo didattico.
La prima volta che l’ho visto era intento a tirare dei tacchi di legno di peso stimato sui due chili a dei neofiti che non si decidevano a staccarsi da riva con i loro Optimist.
Al debutto in barca a vela avevo la barra del timone che mi tremava tra le mani, lui era appollaiato dietro di me e mi guardava senza dire niente, poi :
“Pugg”
io non sapevo cosa fare,
“Pugg”
titubante comincio a stringere il vento,
“A tò dit ‘d Puggiar” seguito da un calcio violento alla barra nella direzione giusta.
Diciamo che non ho più avuto dubbi su poggiare e orzare.
“Angelo, non ci vedo, c’è quel ragazzo lì davanti”
“Sputi”
“Come?”
“Sputi, cuscì I impar a non metrs ‘n mez”
Sputo e centro il ragazzo dietro la nuca, quando sono al timone comando io.
Mi ha insegnato la pazienza, la pesca a traina, la bellezza del silenzio, la lettura dei libri di avventura e quanto è importante avere opinioni proprie.
“ I er ‘l pù brav a notar, ma ai tempi del ventennio gli atleti dovevano essere per forza iscritti alla gioventù fascista. Avevano organizzato il campionato italiano a Marina e tracciato il campo gara tirando delle corsie di boette tra un pontile e l’altro. Si presentano gli atleti provenienti da tutt’Italia, tutti tirati e con il costume aderente a mezza vita, la mascella in fuori ed i capelli pettinati con la riga da una parte.
La gara erano i quattrocento metri stile libero, in fondo al pontile di partenza, al di fuori delle corsie, apparve un orso biondo con un costume intero di lana pesante, come quello dei lottatori di lotta libera.
L’ Lopon.
Si tuffò insieme agli altri e dopo centro metri era ultimo, poi mise in azione le pagaie e le pinne che aveva per mani e piedi ed arrivò davanti a tutti tra gli applausi della gente e le grida di rabbia dei Gerarchi.
Poi scappò a nuoto.
Ecco come ha fatto a non vincere i campionati italiani nuotando con un costume di lana”
Ti voglio bene Angelo.
mercoledì 17 giugno 2009
Mototopa
“Aimilluni auimilluni”
“Rottadiddda rattaplann”
“Muguluni muguluni”
“Settadridda failatran”
Sta andando così da un paio d’ore, Giulio canta a squarciagola una cosa incomprensibile ed io gli vado dietro, sembriamo pazzi.
Stiamo fratazzando la coperta, uno usa lo struscino e l’altro con la cannella lo innaffia d’acqua, ci diamo il cambio e quello al fratazzo, oltre a faticare come una bestia, viene sistematicamente spruzzato.
Il maestrale è durato una settimana ed ha portato via con sé la banda.
Sono rimasti solo il signor B. e la signora S., il commiato è stato particolare.
Francè il vecchio mi ha detto “BBravo GGuaglione” e mi ha mollato una mancia imbarazzante, ho chiesto al babbo cosa fare e lui mi ha detto di tenerli, me li ero meritati.
Il Pirla mi ha salutato mentre stavo pescando le boghe con la pasta al formaggio, ha insistito per stringermi la mano, gli ho lasciato volentieri sulla pelle una grossa quantità di pasta e merda di boga.
La Rapa ha sorriso per la prima volta da quando è arrivata a bordo ed ha aperto un borsellino di pelle rossa con la chiusura in ottone, ho intascato con un inchino.
La nana ha preso la chitarrina e non mi ha degnato di uno sguardo, sta crescendo bene, diventerà una di quelle potte a sonagli con il taglio orizzontale.
Con Francè il giovane uno sguardo ed un abbraccio forte, mi è dispiaciuto perderlo e non lo invidio, è inserito in una famiglia che non merita.
“’T ved quela lì? Al è una ‘d cl’e magrone cal godn un much”
E’ la frase preferita di un amico di Giulio e lui la tira fuori quando c’è una bella donna magra e attraente che ispira una non meglio specificata attività sessuale dalla quale sembra poter ricavare piacere nonché appagamento.
Effettivamente la francesina che sta passando sotto di noi, a bordo di un minuscolo gommone che ronza come una zanzara, fa girare più di una testa.
“Mattaddulli”
“Cantaran”
Riprendiamo il lavoro ed il cuoco mi illustra una sua teoria sulla valutazione delle tette piuttosto interessante.
La prova gommone.
Sostiene che se, con mare appena increspato e velocità superiore ai venti nodi, la tetta sbatacchia prima sulla pancia e poi sulla faccia, trattasi di tetta trascurabile, qualsiasi siano le sue dimensioni.
Se nelle medesime condizioni la tetta si muove poco in alto ed in basso ma tende, per la pressione dell’aria, ad allargarsi verso l’esterno, trattasi di tetta sincera e frequentabile.
Se poi resta immobile, non ha alcun movimento di sbudinamento e regge anche il mare formato è la tetta da sogno.
Interessante.
La sera quando conto per l’ennesima volta le mance e faccio i conti a quanto mi manca per l’acquisto dell’ agognata moto Aprilia ETX 125, mi immagino come sarebbe bello sentire in staccata una tetta di tipo tre che mi si schiaccia sulla schiena.
“Rottadiddda rattaplann”
“Muguluni muguluni”
“Settadridda failatran”
Sta andando così da un paio d’ore, Giulio canta a squarciagola una cosa incomprensibile ed io gli vado dietro, sembriamo pazzi.
Stiamo fratazzando la coperta, uno usa lo struscino e l’altro con la cannella lo innaffia d’acqua, ci diamo il cambio e quello al fratazzo, oltre a faticare come una bestia, viene sistematicamente spruzzato.
Il maestrale è durato una settimana ed ha portato via con sé la banda.
Sono rimasti solo il signor B. e la signora S., il commiato è stato particolare.
Francè il vecchio mi ha detto “BBravo GGuaglione” e mi ha mollato una mancia imbarazzante, ho chiesto al babbo cosa fare e lui mi ha detto di tenerli, me li ero meritati.
Il Pirla mi ha salutato mentre stavo pescando le boghe con la pasta al formaggio, ha insistito per stringermi la mano, gli ho lasciato volentieri sulla pelle una grossa quantità di pasta e merda di boga.
La Rapa ha sorriso per la prima volta da quando è arrivata a bordo ed ha aperto un borsellino di pelle rossa con la chiusura in ottone, ho intascato con un inchino.
La nana ha preso la chitarrina e non mi ha degnato di uno sguardo, sta crescendo bene, diventerà una di quelle potte a sonagli con il taglio orizzontale.
Con Francè il giovane uno sguardo ed un abbraccio forte, mi è dispiaciuto perderlo e non lo invidio, è inserito in una famiglia che non merita.
“’T ved quela lì? Al è una ‘d cl’e magrone cal godn un much”
E’ la frase preferita di un amico di Giulio e lui la tira fuori quando c’è una bella donna magra e attraente che ispira una non meglio specificata attività sessuale dalla quale sembra poter ricavare piacere nonché appagamento.
Effettivamente la francesina che sta passando sotto di noi, a bordo di un minuscolo gommone che ronza come una zanzara, fa girare più di una testa.
“Mattaddulli”
“Cantaran”
Riprendiamo il lavoro ed il cuoco mi illustra una sua teoria sulla valutazione delle tette piuttosto interessante.
La prova gommone.
Sostiene che se, con mare appena increspato e velocità superiore ai venti nodi, la tetta sbatacchia prima sulla pancia e poi sulla faccia, trattasi di tetta trascurabile, qualsiasi siano le sue dimensioni.
Se nelle medesime condizioni la tetta si muove poco in alto ed in basso ma tende, per la pressione dell’aria, ad allargarsi verso l’esterno, trattasi di tetta sincera e frequentabile.
Se poi resta immobile, non ha alcun movimento di sbudinamento e regge anche il mare formato è la tetta da sogno.
Interessante.
La sera quando conto per l’ennesima volta le mance e faccio i conti a quanto mi manca per l’acquisto dell’ agognata moto Aprilia ETX 125, mi immagino come sarebbe bello sentire in staccata una tetta di tipo tre che mi si schiaccia sulla schiena.
martedì 16 giugno 2009
Per piccina che tu sia
“Tirt su, ‘ndian”
Il babbo mi ha appoggiato la mano callosa sul petto e mi ha scosso gentilmente, ero sprofondato in un sogno a base di compiacenti odalische dalle sembianze familiari e mi sveglio di soprassalto in preda al testosterone.
Cerco di ricompormi mentre il babbo si gira e lascia dietro di se una scia di caffè e fumo.
Il cuoco si è già alzato e mi sembra sia notte fonda, sento le sartie sbattere forte sugli alberi e i gabbiani gridano isterici.
In cucina l’orologio di acciaio mi informa che sono le tre e un quarto, la barca si muove e comincia a sbandierare sull’ancora, spostata da un vento che fischia rabbioso le prime raffiche.
Seguo in sala macchine il comandante che avvia i motori, il verde martellato della vernice brilla sotto la luce a basso voltaggio, risaliamo veloci le scalette che ci portano in coperta .
Si mette ai comandi, io mi fiondo di sotto e recupero un maglione ed un’incerata, passo dal portello e apro il pozzo delle catene, Giulio è lì vicino, colpisce la castagna con la mazza di legno ed iniziamo a salpare l’ancora.
Da quello che sono riuscito a vedere non butta tanto bene, dalle raffiche di prima siamo passati ad un muggito sordo , mi arrivano sulla schiena schizzi di acqua salata, è tutto nero intorno.
Appena l’ancora risuona nel suo alloggio fisso i fermi del portello e in qualche modo raggiungo la timoneria.
“Mò i ariv”
A dir la verità pensavo fosse già arrivato e non capisco dove stiamo andando, ci siamo lasciati dietro i Lavezzi ma non riesco a vedere il faro di Santa Teresa.
A metà tragitto il mare comincia a montare davvero e si sentono dabbasso i primi lamenti, qualcuno è caduto dalla cuccetta.
Gli ospiti arrivano trafelati e non riescono a stare in piedi un po’ per il sonno e molto per il rollio, il babbo li prega di stare seduti in salone e di non muoversi.
Il Signor B. sale per ultimo e guarda il comandante, abbassa il mento e annuisce, il babbo lo fissa dritto per qualche secondo e fa segno di sì con la testa.
Riusciamo ad arrivare dietro Capo Ferro dopo qualche ora di patimento, surfando con il mare in poppa i prodromi di quella che sembra essere una maestralata con i fiocchi.
La quiete parziale di Cala di Volpe mi sembra un sogno rispetto a quello che abbiamo intuito prima.
Non l’abbiamo visto ma il mostro era lì in agguato, per questa volta siamo stati più svelti noi, l’odore del suo alito sa di sale e fulmini, mi resterà in testa.
Di sotto è un discreto disastro e non credo che la moquette tornerà come prima, il problema è che non troviamo la Rapa.
La trova Francè nella doccia della cabina armatoriale, discretamente ricoperta di merda, sbava un po’ ma sembra stare abbastanza bene.
“A Casa”
“Si, siamo a casa”
“A CASA”
Forse intendeva un’altra cosa.
Il babbo mi ha appoggiato la mano callosa sul petto e mi ha scosso gentilmente, ero sprofondato in un sogno a base di compiacenti odalische dalle sembianze familiari e mi sveglio di soprassalto in preda al testosterone.
Cerco di ricompormi mentre il babbo si gira e lascia dietro di se una scia di caffè e fumo.
Il cuoco si è già alzato e mi sembra sia notte fonda, sento le sartie sbattere forte sugli alberi e i gabbiani gridano isterici.
In cucina l’orologio di acciaio mi informa che sono le tre e un quarto, la barca si muove e comincia a sbandierare sull’ancora, spostata da un vento che fischia rabbioso le prime raffiche.
Seguo in sala macchine il comandante che avvia i motori, il verde martellato della vernice brilla sotto la luce a basso voltaggio, risaliamo veloci le scalette che ci portano in coperta .
Si mette ai comandi, io mi fiondo di sotto e recupero un maglione ed un’incerata, passo dal portello e apro il pozzo delle catene, Giulio è lì vicino, colpisce la castagna con la mazza di legno ed iniziamo a salpare l’ancora.
Da quello che sono riuscito a vedere non butta tanto bene, dalle raffiche di prima siamo passati ad un muggito sordo , mi arrivano sulla schiena schizzi di acqua salata, è tutto nero intorno.
Appena l’ancora risuona nel suo alloggio fisso i fermi del portello e in qualche modo raggiungo la timoneria.
“Mò i ariv”
A dir la verità pensavo fosse già arrivato e non capisco dove stiamo andando, ci siamo lasciati dietro i Lavezzi ma non riesco a vedere il faro di Santa Teresa.
A metà tragitto il mare comincia a montare davvero e si sentono dabbasso i primi lamenti, qualcuno è caduto dalla cuccetta.
Gli ospiti arrivano trafelati e non riescono a stare in piedi un po’ per il sonno e molto per il rollio, il babbo li prega di stare seduti in salone e di non muoversi.
Il Signor B. sale per ultimo e guarda il comandante, abbassa il mento e annuisce, il babbo lo fissa dritto per qualche secondo e fa segno di sì con la testa.
Riusciamo ad arrivare dietro Capo Ferro dopo qualche ora di patimento, surfando con il mare in poppa i prodromi di quella che sembra essere una maestralata con i fiocchi.
La quiete parziale di Cala di Volpe mi sembra un sogno rispetto a quello che abbiamo intuito prima.
Non l’abbiamo visto ma il mostro era lì in agguato, per questa volta siamo stati più svelti noi, l’odore del suo alito sa di sale e fulmini, mi resterà in testa.
Di sotto è un discreto disastro e non credo che la moquette tornerà come prima, il problema è che non troviamo la Rapa.
La trova Francè nella doccia della cabina armatoriale, discretamente ricoperta di merda, sbava un po’ ma sembra stare abbastanza bene.
“A Casa”
“Si, siamo a casa”
“A CASA”
Forse intendeva un’altra cosa.
sabato 13 giugno 2009
God save the Queen
Oggi devo fare il bravo marinaretto.
Vestito di tutto punto, piedi nudi, calzoncini blu corti, maglietta bianca, capello scarruffato, prendo la banda e la porto al mare.
Ovviamente tutti scelgono una meta diversa , il Signor B. e la Signora S. piccola spiaggetta isolata dalla quale con ruggiti e soffiate stile gatto il Signor B. scaccerà eventuali intrusi, previsto rientro alle 18.
Il pirla ed i figli visita al faro e al cimitero, scarpinata e periplo dello scoglio, previsto rientro alle 1845.
Francè il vecchio prima spiaggia con percentuale alta di francesi in topless e tedesche con il baffo di fuori, rientro non previsto.
La Rapa resta a bordo, trasla da una sedia all’altra e appare nei posti più impensati, non la vedi mai camminare, appare come una madonna e fiuta tabacco in silenzio.
In pratica da quando ho finito il giro mi rimangono due ore libere, per cui mi dirigo verso una baietta che non ho esplorato e mi spoglio.
Sputo nella maschera, la sciacquo una prima volta, mi ingesso i piedi nelle pinne e mi metto i pesi alla cintura , risputo nella maschera e la risciacquo .
Pronto.
Non so se essere triste per l’impossibilità di predare, mi adatto al mio nuovo ruolo di biologo marino e me la godo.
Il posto rispetta le aspettative, meraviglioso, mi preoccupa un po’ il fatto che sul fondo ho trovato un muggine enorme tagliato in due come da un colpo d’accetta, manca la parte della testa.
Improvvisamente sento una sensazione strana partire dal culo, mi risale lungo la spina dorsale e mi si drizzano la peluria sul collo e tutti i capelli.
Mi giro verso destra con la visuale limitata dalla maschera nera e un bolide di grosse dimensioni mi sorpassa come un fulmine.
Riemergo con il cuore a duemila e mi guardo frenetico intorno, poi lo vedo, il mio leviatano.
Un cazzo di cormorano che mi guarda perplesso.
Fottiti.
Riprendo il giro e dietro una punta trovo la barca più brutta che abbia mai visto.
Sembra disegnata da un bambino e costruita da un netturbino con problemi mentali.
Batte bandiera inglese e non mi sembra ci sia nessuno a bordo.
E’ ormeggiata con due ancore di prua in barda di gatto e due corpi morti di poppa.
Non è una barca è una casa , e il padrone deve essere quell’inglese nudo che pattuglia il territorio con un surf a vela.
Ha barba e capelli ispidi e bianchi, magrissimo e un’attrezzatura niente male per un vecchio, con le palle enormi e pendule come quelle di un bracco.
Sotto la barca a dritta una pila enorme di ricci di mare aperti, sulla sinistra una quantità di bottiglie di whiskey vuote da far invidia ad una distilleria, arrivano quasi al bordo dell’acqua.
La sua dieta.
Mi insegue sbraitando come un pazzo, io mi immergo e vado sparato verso il gommone.
Salgo, metto in moto e scappo, mentre lui bestemmia in qualche lingua gaelica, mi calo il costume ed elegantemente gli urlo “Puppa”.
Recupero la ciurma e mi dirigo verso il Galateia, togliere Francè dalla spiaggia è stato un dramma.
Il comandandate mi aspetta.
“Tà vist L’Ngles?”
“Si”
“ E cos ‘i tà dit?”
“You are welcome”
Vestito di tutto punto, piedi nudi, calzoncini blu corti, maglietta bianca, capello scarruffato, prendo la banda e la porto al mare.
Ovviamente tutti scelgono una meta diversa , il Signor B. e la Signora S. piccola spiaggetta isolata dalla quale con ruggiti e soffiate stile gatto il Signor B. scaccerà eventuali intrusi, previsto rientro alle 18.
Il pirla ed i figli visita al faro e al cimitero, scarpinata e periplo dello scoglio, previsto rientro alle 1845.
Francè il vecchio prima spiaggia con percentuale alta di francesi in topless e tedesche con il baffo di fuori, rientro non previsto.
La Rapa resta a bordo, trasla da una sedia all’altra e appare nei posti più impensati, non la vedi mai camminare, appare come una madonna e fiuta tabacco in silenzio.
In pratica da quando ho finito il giro mi rimangono due ore libere, per cui mi dirigo verso una baietta che non ho esplorato e mi spoglio.
Sputo nella maschera, la sciacquo una prima volta, mi ingesso i piedi nelle pinne e mi metto i pesi alla cintura , risputo nella maschera e la risciacquo .
Pronto.
Non so se essere triste per l’impossibilità di predare, mi adatto al mio nuovo ruolo di biologo marino e me la godo.
Il posto rispetta le aspettative, meraviglioso, mi preoccupa un po’ il fatto che sul fondo ho trovato un muggine enorme tagliato in due come da un colpo d’accetta, manca la parte della testa.
Improvvisamente sento una sensazione strana partire dal culo, mi risale lungo la spina dorsale e mi si drizzano la peluria sul collo e tutti i capelli.
Mi giro verso destra con la visuale limitata dalla maschera nera e un bolide di grosse dimensioni mi sorpassa come un fulmine.
Riemergo con il cuore a duemila e mi guardo frenetico intorno, poi lo vedo, il mio leviatano.
Un cazzo di cormorano che mi guarda perplesso.
Fottiti.
Riprendo il giro e dietro una punta trovo la barca più brutta che abbia mai visto.
Sembra disegnata da un bambino e costruita da un netturbino con problemi mentali.
Batte bandiera inglese e non mi sembra ci sia nessuno a bordo.
E’ ormeggiata con due ancore di prua in barda di gatto e due corpi morti di poppa.
Non è una barca è una casa , e il padrone deve essere quell’inglese nudo che pattuglia il territorio con un surf a vela.
Ha barba e capelli ispidi e bianchi, magrissimo e un’attrezzatura niente male per un vecchio, con le palle enormi e pendule come quelle di un bracco.
Sotto la barca a dritta una pila enorme di ricci di mare aperti, sulla sinistra una quantità di bottiglie di whiskey vuote da far invidia ad una distilleria, arrivano quasi al bordo dell’acqua.
La sua dieta.
Mi insegue sbraitando come un pazzo, io mi immergo e vado sparato verso il gommone.
Salgo, metto in moto e scappo, mentre lui bestemmia in qualche lingua gaelica, mi calo il costume ed elegantemente gli urlo “Puppa”.
Recupero la ciurma e mi dirigo verso il Galateia, togliere Francè dalla spiaggia è stato un dramma.
Il comandandate mi aspetta.
“Tà vist L’Ngles?”
“Si”
“ E cos ‘i tà dit?”
“You are welcome”
giovedì 21 maggio 2009
'AS
Stamani siamo partiti prima dell’alba, gli ospiti dormono ancora e noi ci muoviamo con la discrezione massima, come tre grossi gattoni.
Il comandante è stranamente nervoso, ha discusso a lungo con il signor B. che ha insistito per passare due giorni a Lavezzi.
Il Babbo, nonostante le previsioni buone per tutta la settimana, si è messo di traverso dicendo che non era il caso, alla fine ha vinto l’armatore sub conditione, si va, si valuta e poi decide il bà.
La navigazione è buona, ci teniamo sottocosta e da quello che riesco a vedere la giornata sarà splendida.
Siamo ormai davanti a Razzoli quando il comandante comincia a parlare.
“ Nel febbraio del 1855 la fregata francese Semillante proveniente da Tolone e diretta in Crimea, arrivò a Capo Testa con delle condizioni meteo terribili. Aveva a bordo 300 uomini di equipaggio e 600 soldati, il comandante si trovò ad affrontare un vento di ponente terrificante, poi girò a libeccio pieno, per cui decise di attraversare le Bocche di Bonifacio per proseguire la navigazione a ridosso della costa est della Sardegna.
Le Bocche avevano smesso di essere mare, erano diventate fiume e schiuma, la visibilità era nulla, le onde altissime, a terra volavano tetti ed animali.
Il comandante Jugan era abile, riuscì con una manovra azzardata ad evitare l’impatto con gli scogli dei Lavezzi, dopo un’ora di combattimento non ci fu più niente da fare, la nave esplose contro le rocce acuminate.
I soccorsi riuscirono ad arrivare solo dopo un giorno, non c’era un singolo corpo da ricomporre, solo una miriade di brandelli assaliti dai gabbiani, della nave solo qualche cannone spiaggiato al centro dell’isola e schegge di legno minuscole.
Sepellirono quei resti miseri direttamente sull’isola, piantarono mille croci, alcune sono altissime e si vedono da distante.
Sono il nostro monito, le Bocche urlano e poi ti mangiano”
“Cazzo.”
“ E poi ‘ai iè i gabian chi fan ‘l vers al’as”
“Eh?”
“I gabbiani per qualche motivo hanno imparato ad imitare il verso degli asini che vivono sull’isola, ci sono anche delle mucche, e di notte fanno un casino bestiale”
‘Sti Lavezzi mi iniziano a preoccupare un po’.
Finalmente attraversiamo e Bocche e ci avviciniamo all'Eden.
Non ho mai visto una bellezza del genere, una miriade di scogli che spuntano dal blu profondissimo che si diluisce in tutte le tonalità dell’azzurro mano a mano che diminuisce il fondale, sassi di un granito chiarissimo screziato da fiori viola e gialli, una specie di laguna dove galleggiano mollemente barche di piccole dimensioni, un faro enorme ed apparentemente sproporzionato, le croci.
Non amo farmi impressionare dai giudizi degli altri, cerco sempre di rimanere aperto a quello che sento, non ho mai letto la critica di un film né la prefazione di un libro, rifiuto il condizionamento.
Per cui dimentico all’istante il racconto del babbo ed ululante mi lancio in mare appena effettuato l’ancoraggio che ha richiesto più tempo del solito.
Se in superficie è bello sotto è impressionante, cadute, scalini , sassi enormi, secche che arrivano al pelo dell’acqua, canaloni popolati da gorgonie, e peeeeeeeeeeeeeeeeeesci.
Enormi, di tutte le specie, e soprattutto fermi.
Sparacchio per dieci minuti prendendo prede che mai avrei immaginato, poi mi fermo sentendomi un po’ stronzo, è troppo facile.
Rientro a bordo con una fagottata di roba e con un sorriso smagliante, il babbo mi guarda.
“Ma ‘t sen arumababit? E’ riserva naturale, se ci prendono i francesi ci fanno neri”
“………”
Sopra di noi passa un gabbiamo, adocchia il retino del pesce, raglia come un pazzo, rutta e si allontana.
Può solo migliorare.
Il comandante è stranamente nervoso, ha discusso a lungo con il signor B. che ha insistito per passare due giorni a Lavezzi.
Il Babbo, nonostante le previsioni buone per tutta la settimana, si è messo di traverso dicendo che non era il caso, alla fine ha vinto l’armatore sub conditione, si va, si valuta e poi decide il bà.
La navigazione è buona, ci teniamo sottocosta e da quello che riesco a vedere la giornata sarà splendida.
Siamo ormai davanti a Razzoli quando il comandante comincia a parlare.
“ Nel febbraio del 1855 la fregata francese Semillante proveniente da Tolone e diretta in Crimea, arrivò a Capo Testa con delle condizioni meteo terribili. Aveva a bordo 300 uomini di equipaggio e 600 soldati, il comandante si trovò ad affrontare un vento di ponente terrificante, poi girò a libeccio pieno, per cui decise di attraversare le Bocche di Bonifacio per proseguire la navigazione a ridosso della costa est della Sardegna.
Le Bocche avevano smesso di essere mare, erano diventate fiume e schiuma, la visibilità era nulla, le onde altissime, a terra volavano tetti ed animali.
Il comandante Jugan era abile, riuscì con una manovra azzardata ad evitare l’impatto con gli scogli dei Lavezzi, dopo un’ora di combattimento non ci fu più niente da fare, la nave esplose contro le rocce acuminate.
I soccorsi riuscirono ad arrivare solo dopo un giorno, non c’era un singolo corpo da ricomporre, solo una miriade di brandelli assaliti dai gabbiani, della nave solo qualche cannone spiaggiato al centro dell’isola e schegge di legno minuscole.
Sepellirono quei resti miseri direttamente sull’isola, piantarono mille croci, alcune sono altissime e si vedono da distante.
Sono il nostro monito, le Bocche urlano e poi ti mangiano”
“Cazzo.”
“ E poi ‘ai iè i gabian chi fan ‘l vers al’as”
“Eh?”
“I gabbiani per qualche motivo hanno imparato ad imitare il verso degli asini che vivono sull’isola, ci sono anche delle mucche, e di notte fanno un casino bestiale”
‘Sti Lavezzi mi iniziano a preoccupare un po’.
Finalmente attraversiamo e Bocche e ci avviciniamo all'Eden.
Non ho mai visto una bellezza del genere, una miriade di scogli che spuntano dal blu profondissimo che si diluisce in tutte le tonalità dell’azzurro mano a mano che diminuisce il fondale, sassi di un granito chiarissimo screziato da fiori viola e gialli, una specie di laguna dove galleggiano mollemente barche di piccole dimensioni, un faro enorme ed apparentemente sproporzionato, le croci.
Non amo farmi impressionare dai giudizi degli altri, cerco sempre di rimanere aperto a quello che sento, non ho mai letto la critica di un film né la prefazione di un libro, rifiuto il condizionamento.
Per cui dimentico all’istante il racconto del babbo ed ululante mi lancio in mare appena effettuato l’ancoraggio che ha richiesto più tempo del solito.
Se in superficie è bello sotto è impressionante, cadute, scalini , sassi enormi, secche che arrivano al pelo dell’acqua, canaloni popolati da gorgonie, e peeeeeeeeeeeeeeeeeesci.
Enormi, di tutte le specie, e soprattutto fermi.
Sparacchio per dieci minuti prendendo prede che mai avrei immaginato, poi mi fermo sentendomi un po’ stronzo, è troppo facile.
Rientro a bordo con una fagottata di roba e con un sorriso smagliante, il babbo mi guarda.
“Ma ‘t sen arumababit? E’ riserva naturale, se ci prendono i francesi ci fanno neri”
“………”
Sopra di noi passa un gabbiamo, adocchia il retino del pesce, raglia come un pazzo, rutta e si allontana.
Può solo migliorare.
lunedì 18 maggio 2009
Robin Hood
“Bà, ma perché la moglie della Ghifa ti aveva preso ad ombrellate?”
In realtà la risposta la so già, ma mentre gli passo gli attrezzi per riparare il generatore Onam provo a distrarlo, così si incazza meno.
Siamo in sala macchine dopo essere rientrati da una gita per l’arcipelago, il termometro sfiora gli ottanta gradi e la riparazione va fatta subito.
Siamo completamente bagnati di sudore, io a torso nudo e lui con la maglietta blu del Galateia che è praticamente nera da tanto che è zuppa.
L’Onam è un piccolo gioiello americano, completamente insonorizzato e piccolo come una valigia, sproporzionato rispetto all’opulenza dei motori teutonici, è in grado di produrre corrente a 12, 24 e 220 volt ed è silenziosissimo.
Peccato che se si guasta non hai spazio per metterci le mani, il babbo sta provando ad estrarre un iniettore e si è spellato tutte le nocche disponibili, l’iniettore rimane al suo posto arroccato come un dattero.
Prova anche la mossa speciale con il dito storto, il generatore se ne fotte.
Ecco, è diventata una cosa personale.
Bestemmia, MS e attacco all’arma bianca, il piccolo mostro reagisce con una chiusura accidentale del portello superiore, lo prendo al volo prima che amputi qualcosa al comandante.
Da qui la domanda.
E la risposta.
“Perché Robin Hood ‘I è ‘na testa ‘d cazz”.
La Ghifa ha da sempre questa passione per appianare i torti, fottere ai ricchi per dare ai bisognosi, ovviamente chi è ricco o bisognoso lo stabilisce lui con la sua inafferrabile logica personale.
Mettiamo che lui decida che hai bisogno di quattro chili di pittura metallizzata fosforescente verde perché ha visto che hai la ringhiera scrostata.
Tu la ringhiera la vuoi cambiare e mettere zincata, ma lui non lo sa o comunque se ne fotte, per cui inizia la catena per arrivare al barattolo.
Di solito inizia con un furto di verdura o un abigeato, poi inizia gli scambi.
Prende la gallina o il cavolo cappuccino e li porta dal meccanico delle bici che gli dà un manubrio rugginoso e un copertone in cambio, lui scambia la mercanzia con Gigi il barbiere gran appassionato di Bartali ed ottiene in cambio un taglio di capelli gratis per un mese a Scassagarretti.
Scassagarretti fà il rivenditore di vino per cui risponde con una serie di fiaschi di morcone imbevibile, due fiaschi li tiene la Ghifa e gli altri dirottano su Giusè il portuale.
Giusè tiene due fiaschi e passa gli altri a suo fratello che lavora all’Azienda Mezzi Meccanici che finalmente ciula quattro barattoli di vernice dal magazzino e li consegna alla Ghifa.
Alla mattina ti ritrovi la vernice sul terrazzo e non sai chi l’ha messa lì, anche se lo immagini, e sei obbligato a pitturare la ringhiera sennò si offende.
Ogni tanto le cose non vanno lisce ed il contadino o allevatore vessato gli cambia i connotati.
La moglie si preoccupa e lui da la colpa al babbo.
“ I’ è stat ‘l comandante, I’ sé girat con un rem ‘n man in mà vist e I’ mà rot ‘l mus”
Al decimo infortunio il babbo è stato aggredito dalla moglie, lui si è scusato e ha detto che sarebbe stato più attento.
Poi è andato dalla Ghifa e gli ha rotto il naso.
Lui è tornato a casa e ha dichiarato di essere scivolato.
Tutte le mattine porta il giornale al babbo, lui gli fa il caffè e commentano le notizie con grasse risate.
In realtà la risposta la so già, ma mentre gli passo gli attrezzi per riparare il generatore Onam provo a distrarlo, così si incazza meno.
Siamo in sala macchine dopo essere rientrati da una gita per l’arcipelago, il termometro sfiora gli ottanta gradi e la riparazione va fatta subito.
Siamo completamente bagnati di sudore, io a torso nudo e lui con la maglietta blu del Galateia che è praticamente nera da tanto che è zuppa.
L’Onam è un piccolo gioiello americano, completamente insonorizzato e piccolo come una valigia, sproporzionato rispetto all’opulenza dei motori teutonici, è in grado di produrre corrente a 12, 24 e 220 volt ed è silenziosissimo.
Peccato che se si guasta non hai spazio per metterci le mani, il babbo sta provando ad estrarre un iniettore e si è spellato tutte le nocche disponibili, l’iniettore rimane al suo posto arroccato come un dattero.
Prova anche la mossa speciale con il dito storto, il generatore se ne fotte.
Ecco, è diventata una cosa personale.
Bestemmia, MS e attacco all’arma bianca, il piccolo mostro reagisce con una chiusura accidentale del portello superiore, lo prendo al volo prima che amputi qualcosa al comandante.
Da qui la domanda.
E la risposta.
“Perché Robin Hood ‘I è ‘na testa ‘d cazz”.
La Ghifa ha da sempre questa passione per appianare i torti, fottere ai ricchi per dare ai bisognosi, ovviamente chi è ricco o bisognoso lo stabilisce lui con la sua inafferrabile logica personale.
Mettiamo che lui decida che hai bisogno di quattro chili di pittura metallizzata fosforescente verde perché ha visto che hai la ringhiera scrostata.
Tu la ringhiera la vuoi cambiare e mettere zincata, ma lui non lo sa o comunque se ne fotte, per cui inizia la catena per arrivare al barattolo.
Di solito inizia con un furto di verdura o un abigeato, poi inizia gli scambi.
Prende la gallina o il cavolo cappuccino e li porta dal meccanico delle bici che gli dà un manubrio rugginoso e un copertone in cambio, lui scambia la mercanzia con Gigi il barbiere gran appassionato di Bartali ed ottiene in cambio un taglio di capelli gratis per un mese a Scassagarretti.
Scassagarretti fà il rivenditore di vino per cui risponde con una serie di fiaschi di morcone imbevibile, due fiaschi li tiene la Ghifa e gli altri dirottano su Giusè il portuale.
Giusè tiene due fiaschi e passa gli altri a suo fratello che lavora all’Azienda Mezzi Meccanici che finalmente ciula quattro barattoli di vernice dal magazzino e li consegna alla Ghifa.
Alla mattina ti ritrovi la vernice sul terrazzo e non sai chi l’ha messa lì, anche se lo immagini, e sei obbligato a pitturare la ringhiera sennò si offende.
Ogni tanto le cose non vanno lisce ed il contadino o allevatore vessato gli cambia i connotati.
La moglie si preoccupa e lui da la colpa al babbo.
“ I’ è stat ‘l comandante, I’ sé girat con un rem ‘n man in mà vist e I’ mà rot ‘l mus”
Al decimo infortunio il babbo è stato aggredito dalla moglie, lui si è scusato e ha detto che sarebbe stato più attento.
Poi è andato dalla Ghifa e gli ha rotto il naso.
Lui è tornato a casa e ha dichiarato di essere scivolato.
Tutte le mattine porta il giornale al babbo, lui gli fa il caffè e commentano le notizie con grasse risate.
venerdì 15 maggio 2009
Libertà
E’ strano quanta libertà riesci a provare compresso in 26 metri di barca.
Uno pensa alla convivenza forzata, al doversi adattare al condividere suoni, odori e cibo con gli altri ed è anche vero, ma ci sono dei momenti in cui ti ricavi il tuo angolino e lasci andare la mente, semplicemente perché hai il tempo di farlo.
Il mio posto è a prua sulla tormentina.
Dopo una giornata di giochi, di lavoro, dopo aver servito in tavola e aiutato il cuoco a rigovernare, dopo aver controllato che le luci siano spente e che l’ancora tenga bene, mi adagio lì.
E mi apro al cielo sopra di me, mescolo sensazioni, ricordi della giornata, sogni, desideri e stelle e parte la mia proiezione personale.
Le cose le vedo, non le immagino, ma probabilmente è la stessa cosa.
Non scelgo mai il tema, c’è una parte dentro di me destinata a svolgere questa attività, io mi sdraio e guardo mentre il babbo fuma di poppa, non mi ha mai chiesto niente al riguardo, forse sta guardando anche lui il suo film.
Stasera butta male, al Gran Cinema Tormentina danno qualcosa di terribile, una storia di guerra scaturita non dalle mirabolanti ed edulcorate storie del babbo ma da una conversazione origliata tra mia madre e la Isa, la moglie del cuoco.
Nel paese sul monte c’è un gerarca fascista pacioso e inerme, mandato a presidiare quel covo di anarchici ribelli con i quali condivide la fame ed il vino.
La sera dell’armistizio si mette per la prima volta la divisa, addirittura l’alta uniforme, va al grammofono e lo carica, mette Giovinezza a tutto volume ed esce sul balcone.
Si aprono le finestre e la gente lo guarda stupita, tiene nella mano destra una baionetta, sulla baionetta è infilzato il figlio in fasce della vicina di casa, un rivolo di sangue gli scende lungo il braccio e gli sporca la manica della camicia inamidata.
Lo prendono le donne, le vedove di guerra, le vedove di cava, le vecchie, le bambine, è un paese di donne e vecchi.
Distruggono la porta e lo trascinano sul ponte, l’unico punto in piano del paese.
Cinquecento persone, in silenzio, cinquecento schiaffi, uno per uno, che nessuno sia esentato.
Lo prendono, più morto che vivo, e gli mettono una cavezza al collo come a un mulo.
Due vecchi lo tirano verso il monte, verso la Tana dei Tufi, una grotta naturale con l’entrata stretta e le camere grandi, misteriose addobbate di stalattiti.
Tornano soli al ponte, loro piangono, le donne no.
La libertà costa.
Sempre.
La memoria non deve svanire.
Mai.
Uno pensa alla convivenza forzata, al doversi adattare al condividere suoni, odori e cibo con gli altri ed è anche vero, ma ci sono dei momenti in cui ti ricavi il tuo angolino e lasci andare la mente, semplicemente perché hai il tempo di farlo.
Il mio posto è a prua sulla tormentina.
Dopo una giornata di giochi, di lavoro, dopo aver servito in tavola e aiutato il cuoco a rigovernare, dopo aver controllato che le luci siano spente e che l’ancora tenga bene, mi adagio lì.
E mi apro al cielo sopra di me, mescolo sensazioni, ricordi della giornata, sogni, desideri e stelle e parte la mia proiezione personale.
Le cose le vedo, non le immagino, ma probabilmente è la stessa cosa.
Non scelgo mai il tema, c’è una parte dentro di me destinata a svolgere questa attività, io mi sdraio e guardo mentre il babbo fuma di poppa, non mi ha mai chiesto niente al riguardo, forse sta guardando anche lui il suo film.
Stasera butta male, al Gran Cinema Tormentina danno qualcosa di terribile, una storia di guerra scaturita non dalle mirabolanti ed edulcorate storie del babbo ma da una conversazione origliata tra mia madre e la Isa, la moglie del cuoco.
Nel paese sul monte c’è un gerarca fascista pacioso e inerme, mandato a presidiare quel covo di anarchici ribelli con i quali condivide la fame ed il vino.
La sera dell’armistizio si mette per la prima volta la divisa, addirittura l’alta uniforme, va al grammofono e lo carica, mette Giovinezza a tutto volume ed esce sul balcone.
Si aprono le finestre e la gente lo guarda stupita, tiene nella mano destra una baionetta, sulla baionetta è infilzato il figlio in fasce della vicina di casa, un rivolo di sangue gli scende lungo il braccio e gli sporca la manica della camicia inamidata.
Lo prendono le donne, le vedove di guerra, le vedove di cava, le vecchie, le bambine, è un paese di donne e vecchi.
Distruggono la porta e lo trascinano sul ponte, l’unico punto in piano del paese.
Cinquecento persone, in silenzio, cinquecento schiaffi, uno per uno, che nessuno sia esentato.
Lo prendono, più morto che vivo, e gli mettono una cavezza al collo come a un mulo.
Due vecchi lo tirano verso il monte, verso la Tana dei Tufi, una grotta naturale con l’entrata stretta e le camere grandi, misteriose addobbate di stalattiti.
Tornano soli al ponte, loro piangono, le donne no.
La libertà costa.
Sempre.
La memoria non deve svanire.
Mai.
mercoledì 13 maggio 2009
Ghepardo
Francè il giovane non è per niente male, è simpatico.
Ha i capelli come i miei, come un cartone animato giapponese, vanno in tutte le direzioni senza controllo, solo che i miei sono neri e i suoi biondastri.
Fine delle somiglianze.
Mi arriva alla vita ed ha la testa enorme, gli ho prestato la maschera e gli stringe brutalmente, è di gamba corta ma in mare si muove bene, si vede che è abituato.
Ha uno sguardo triste mentre guarda la sorella che garrula intrattiene il gruppo, lui è piuttosto silenzioso e questo a me va bene.
“ Vidisse quella là?”
“La piccolina?”
“Ma ti rendi conto di come l’hanno addestrata? E’ un nano da palcoscenico”
“E tu?”
“Me ne futtisse”
“Bagno?”
“Bagno”
E si va.
Prendiamo il gommone e ci accostiamo ad una spiaggetta vicino al Pevero, mi tengo un po’ fuori per non infastidire i bagnanti e butto l’ancora in una zona sabbiosa fra le praterie di posidonia.
E’ un buon posto, il fondale passa dalla sabbia allo scoglio e ci sono diversi pesciotti che ci fanno compagnia.
Brutalizzo un paio di saraghi e l’immancabile triglia, mi litigo con una seppia di taglia che vuole mordermi a tutti i costi e poi passo il fucile a Francè.
Mi fa un sorrisone di gioia, lo avevo già preparato a bordo dandogli consigli e direttive e pregandolo di puntarlo sempre verso il basso.
E’ un’iniziazione e lui la accoglie come tale, con trepidazione e serietà.
Fa più o meno tutto quello che gli ho spiegato, ha qualche difficoltà ad effettuare la capovolta e a togliersi il tubo di bocca con il fucile in mano, per il resto va alla grande.
Lo osservo per una mezzora a distanza di sicurezza, assicurandomi che non ci sia nessuno nelle vicinanze, saremo ad una cinquantina di metri dalla riva.
Ha distrutto qualche pesce di taglia infima e gli spiego che non si spara a niente che tu non voglia o non possa mangiare, annuisce.
Sulla riva ci sono delle nostre coetanee piuttosto spogliate, diciamo molto spogliate, e mi distraggo per un minuto mentre l’acqua intorno alla mia zona pelvica comincia a bollire.
E lui fa la cazzata.
Ha sparato su uno scoglio e si agita tutto, l’asta esce dalla pietra come la spada dalla roccia.
E lui si agita.
Per forza, non è uno scoglio, è un polpo mostruoso, mai visto niente del genere.
Mi immergo mentre il polpo si strappa il cinque punte da dosso, non so che cazzo fare, è davvero enorme.
Lo prendo per la testa e lo strappo dal fondo, si porta dietro una serie di sassi attaccati ai tentacoli. Mi si attacca al fianco destro e prova a mordermi con il suo becco, provo a girargli la testa e non ci riesco.
Riemergo, già respirare è un successone, sento le sue ventose dappertutto, dal piede fino dietro la schiena.
Mi gioco la carta Submariner.
Nuoto sul dorso pinneggiando come un pazzo verso la spiaggia, i bagnanti sono ignari, l’essere in acqua bassa mi consola.
Il mostro è sorpreso e non riesce ad addentarmi, ormai ci sono quasi e scelgo l’uscita spettacolare , nuoto immerso fino a riva e mi alzo di scatto.
Fosse sbarcato un alieno avrebbero fatto meno casino, urla e fuga dalla battigia, mi complimento con me stesso mentre mi strappo il cefalopode da dosso e faccio una manfrina esagerata per accopparlo.
Arriva anche Francè e siamo circondati da un nugolo di bagnanti che ci immortalano nelle polaroid.
Torniamo a bordo battendoci il cinque, lascio la gloria a lui, d’altra parte è giusto così.
Il babbo mi guarda e mi fa:
“’T ‘m par un ghepardo”
Sono tatuato su tutto il corpo dal segno delle ventose, una miriade di succhiotti.
Scendo in cabina fiero come Achab della sua gamba di osso di balena.
Ha i capelli come i miei, come un cartone animato giapponese, vanno in tutte le direzioni senza controllo, solo che i miei sono neri e i suoi biondastri.
Fine delle somiglianze.
Mi arriva alla vita ed ha la testa enorme, gli ho prestato la maschera e gli stringe brutalmente, è di gamba corta ma in mare si muove bene, si vede che è abituato.
Ha uno sguardo triste mentre guarda la sorella che garrula intrattiene il gruppo, lui è piuttosto silenzioso e questo a me va bene.
“ Vidisse quella là?”
“La piccolina?”
“Ma ti rendi conto di come l’hanno addestrata? E’ un nano da palcoscenico”
“E tu?”
“Me ne futtisse”
“Bagno?”
“Bagno”
E si va.
Prendiamo il gommone e ci accostiamo ad una spiaggetta vicino al Pevero, mi tengo un po’ fuori per non infastidire i bagnanti e butto l’ancora in una zona sabbiosa fra le praterie di posidonia.
E’ un buon posto, il fondale passa dalla sabbia allo scoglio e ci sono diversi pesciotti che ci fanno compagnia.
Brutalizzo un paio di saraghi e l’immancabile triglia, mi litigo con una seppia di taglia che vuole mordermi a tutti i costi e poi passo il fucile a Francè.
Mi fa un sorrisone di gioia, lo avevo già preparato a bordo dandogli consigli e direttive e pregandolo di puntarlo sempre verso il basso.
E’ un’iniziazione e lui la accoglie come tale, con trepidazione e serietà.
Fa più o meno tutto quello che gli ho spiegato, ha qualche difficoltà ad effettuare la capovolta e a togliersi il tubo di bocca con il fucile in mano, per il resto va alla grande.
Lo osservo per una mezzora a distanza di sicurezza, assicurandomi che non ci sia nessuno nelle vicinanze, saremo ad una cinquantina di metri dalla riva.
Ha distrutto qualche pesce di taglia infima e gli spiego che non si spara a niente che tu non voglia o non possa mangiare, annuisce.
Sulla riva ci sono delle nostre coetanee piuttosto spogliate, diciamo molto spogliate, e mi distraggo per un minuto mentre l’acqua intorno alla mia zona pelvica comincia a bollire.
E lui fa la cazzata.
Ha sparato su uno scoglio e si agita tutto, l’asta esce dalla pietra come la spada dalla roccia.
E lui si agita.
Per forza, non è uno scoglio, è un polpo mostruoso, mai visto niente del genere.
Mi immergo mentre il polpo si strappa il cinque punte da dosso, non so che cazzo fare, è davvero enorme.
Lo prendo per la testa e lo strappo dal fondo, si porta dietro una serie di sassi attaccati ai tentacoli. Mi si attacca al fianco destro e prova a mordermi con il suo becco, provo a girargli la testa e non ci riesco.
Riemergo, già respirare è un successone, sento le sue ventose dappertutto, dal piede fino dietro la schiena.
Mi gioco la carta Submariner.
Nuoto sul dorso pinneggiando come un pazzo verso la spiaggia, i bagnanti sono ignari, l’essere in acqua bassa mi consola.
Il mostro è sorpreso e non riesce ad addentarmi, ormai ci sono quasi e scelgo l’uscita spettacolare , nuoto immerso fino a riva e mi alzo di scatto.
Fosse sbarcato un alieno avrebbero fatto meno casino, urla e fuga dalla battigia, mi complimento con me stesso mentre mi strappo il cefalopode da dosso e faccio una manfrina esagerata per accopparlo.
Arriva anche Francè e siamo circondati da un nugolo di bagnanti che ci immortalano nelle polaroid.
Torniamo a bordo battendoci il cinque, lascio la gloria a lui, d’altra parte è giusto così.
Il babbo mi guarda e mi fa:
“’T ‘m par un ghepardo”
Sono tatuato su tutto il corpo dal segno delle ventose, una miriade di succhiotti.
Scendo in cabina fiero come Achab della sua gamba di osso di balena.
martedì 12 maggio 2009
H2O
Francè il vecchio è incontrollabile.
Ha iniziato una muta rivolta contro il razionamento dell’acqua e ci sta facendo impazzire tutti quanti.
In barca l’acqua è un bene prezioso come nel deserto, per farti una doccia devi prima bagnarti un poco, poi stacchi il rubinetto e ti insaponi, in seguito ti risciacqui usando meno acqua possibile.
I rubinetti sono a molla e le docce temporizzate, tutto è studiato per consumarne il meno possibile.
I gabinetti sono a pompa manuale, una volta riempiti ti attacchi alla leva e pompi come un disperato finché lui, il cesso, non digerisce i tuoi avanzi.
Usando poca carta altrimenti si intasa e facendoti un veloce bidet a molla per rinfrescarti.
Tutto ciò il Conte lo digerisce a stento e si è inventato una serie di trucchetti per fregarci.
Mi domandavo perché a cena si impadronisse tutti i tappi di sughero che trovava, l’ha scoperto il babbo.
Li incastra nei rubinetti e si fa la barba con l’acqua scrosciante , ha lasciato la doccia accesa tutta la notte per rappresaglia ed ha legato il rubinetto del bidet con il filo interdentale.
Ha allagato la moquette della cabina e siamo senz’acqua, la cassa delle acque nere è piena di prezioso liquido potabile.
Il Babbo è rosso come un peperone e temo per le coronarie, sta gentilmente spiegando a Francè che è un vecchietto cattivo cattivo e ammiro il fatto che per ora non l’abbia buttato fuoribordo.
Francè sorride come al solito e dice “ O’ piede marino, O’ piede marino”
Il babbo si spara un caricatore di MS e lo manda a cagare.
Il problema è che il Signor B. ha litigato con L’Aga Kan e a Porto Cervo non possiamo entrare, a Porto Rotondo ti spelano per l’ancoraggio di un giorno e il Signor B. non ci pensa nemmeno a spendere mille lire per quei ricconi di merda.
Soluzione, il rubinetto della Baffona.
Carico il gommoncino con quattro taniconi da venticinque litri, li assicuro con una funetta e plano fino alla banchina della Baffona, riempio le taniche domandandomi chi paga quell’acqua e torno indietro lentamente quasi affondato dal peso.
Facendo un breve calcolo, con 20 viaggi me la dovrei cavare mi ci vuole 15 minuti a viaggio e cinque minuti per far issare dal babbo e Giulio le taniche piene e rimpiazzarle con altre quattro vuote, in totale dovrebbero essere circa 7 ore di avanti e indietro.
Alla quarta ora sono completamente sfinito, mi arrampico a bordo e divoro tutto quello che il cuoco mi mette davanti.
Intercetto Francè che trotterella di prua con il panama in testa.
“Conte”
“Quant’è bbella ‘stà journata”
“Conte non lo farà più vero?’”
“ ‘O sole splente comme a Capri”
Gli faccio vedere la mano spellata e piena di vesciche.
Si fruga in tasca e mi allunga diecimila lire.
Le prendo, le piego e le pianto in coperta con il coltellino da nostromo che mi porto sempre dietro.
“Bbello guaglione”
“Francè basta ‘acussì”
“Posso fare a ‘varba?”
“ Solo la barba”
“Bbello guaglione”
“Francè…”
“’O piede marino?”
“’O piede marino”
Ha iniziato una muta rivolta contro il razionamento dell’acqua e ci sta facendo impazzire tutti quanti.
In barca l’acqua è un bene prezioso come nel deserto, per farti una doccia devi prima bagnarti un poco, poi stacchi il rubinetto e ti insaponi, in seguito ti risciacqui usando meno acqua possibile.
I rubinetti sono a molla e le docce temporizzate, tutto è studiato per consumarne il meno possibile.
I gabinetti sono a pompa manuale, una volta riempiti ti attacchi alla leva e pompi come un disperato finché lui, il cesso, non digerisce i tuoi avanzi.
Usando poca carta altrimenti si intasa e facendoti un veloce bidet a molla per rinfrescarti.
Tutto ciò il Conte lo digerisce a stento e si è inventato una serie di trucchetti per fregarci.
Mi domandavo perché a cena si impadronisse tutti i tappi di sughero che trovava, l’ha scoperto il babbo.
Li incastra nei rubinetti e si fa la barba con l’acqua scrosciante , ha lasciato la doccia accesa tutta la notte per rappresaglia ed ha legato il rubinetto del bidet con il filo interdentale.
Ha allagato la moquette della cabina e siamo senz’acqua, la cassa delle acque nere è piena di prezioso liquido potabile.
Il Babbo è rosso come un peperone e temo per le coronarie, sta gentilmente spiegando a Francè che è un vecchietto cattivo cattivo e ammiro il fatto che per ora non l’abbia buttato fuoribordo.
Francè sorride come al solito e dice “ O’ piede marino, O’ piede marino”
Il babbo si spara un caricatore di MS e lo manda a cagare.
Il problema è che il Signor B. ha litigato con L’Aga Kan e a Porto Cervo non possiamo entrare, a Porto Rotondo ti spelano per l’ancoraggio di un giorno e il Signor B. non ci pensa nemmeno a spendere mille lire per quei ricconi di merda.
Soluzione, il rubinetto della Baffona.
Carico il gommoncino con quattro taniconi da venticinque litri, li assicuro con una funetta e plano fino alla banchina della Baffona, riempio le taniche domandandomi chi paga quell’acqua e torno indietro lentamente quasi affondato dal peso.
Facendo un breve calcolo, con 20 viaggi me la dovrei cavare mi ci vuole 15 minuti a viaggio e cinque minuti per far issare dal babbo e Giulio le taniche piene e rimpiazzarle con altre quattro vuote, in totale dovrebbero essere circa 7 ore di avanti e indietro.
Alla quarta ora sono completamente sfinito, mi arrampico a bordo e divoro tutto quello che il cuoco mi mette davanti.
Intercetto Francè che trotterella di prua con il panama in testa.
“Conte”
“Quant’è bbella ‘stà journata”
“Conte non lo farà più vero?’”
“ ‘O sole splente comme a Capri”
Gli faccio vedere la mano spellata e piena di vesciche.
Si fruga in tasca e mi allunga diecimila lire.
Le prendo, le piego e le pianto in coperta con il coltellino da nostromo che mi porto sempre dietro.
“Bbello guaglione”
“Francè basta ‘acussì”
“Posso fare a ‘varba?”
“ Solo la barba”
“Bbello guaglione”
“Francè…”
“’O piede marino?”
“’O piede marino”
giovedì 30 aprile 2009
Golf
Nothing is simple dicono gli inglesi e chi scende bene non sempre sale nella stessa maniera.
Il babbo ha dovuto attrezzare il tangone con un’imbragatura di fortuna che aveva predisposto anni prima per sollevare Min e Chione i due bassethound di un’ospite del Sig.B.
Il problema è la Rapa, si è imbizzarrita e non ne ha voluto sapere della biscaglina predisposta per cui la stiamo virando a bordo con tutte le cautele del caso e lei sembra contenta del trattamento.
I due cani in realtà non si chiamavano così però il comandante ricorda che uno era femmina e uno maschio.
La femmina era venuta su bene, il maschio, un possente cane di una quarantina di chili si era mosso e aveva cominciato a ululare come un pazzo agitandosi e rischiando di cadere in mare.
Una volta a bordo avevano verificato che l’imbragatura gli aveva pinzato i gioielli di famiglia, che peraltro valevano metà del peso del cane, e la padrona urlava “ Aiuto il mio Pucci, me lo avete rovinato”, il babbo gli aveva gentilmente fatto notare che nessuno gli aveva segnalato il carico sporgente.
Slego la vecchia che facendo risuonare il bastone sulla coperta si dirige verso poppa dove sono in atto i festeggiamenti di rito.
Francè si muove a velocità pericolosa da una parte all’altra del Galateia, sembra traslare sui cuscinetti a sfera, la bambina ha tirato fuori la chitarra e intona una tammuriata che ritengo sia un’ode al Signor B. e alla possibile eredità, la Grinza ha salutato e si è infilata in cabina richiedendo un frullato di verdura, il nano bambino sta in disparte e il pirla parla a voce altissima.
Prima succhiata di denti.
Loda apertamente la barca, l’equipaggio, la fortuna del Signor B.
Seconda succhiata di denti.
Loda la Sardegna, Cala di Volpe ed il Pevero.
Terza succhiata di denti, sembra intenzionato a divoralo lì in coperta, lo vedo già sanguinante come un Gnù che esala l’ultimo respiro.
“Tutti al Golf, esentati Francè e la vecchia” tuona il Signor B.
Li riporto a terra e spariscono, non so dove vadano, io nel golf non ci sono mai entrato, ma ancora una volta non portano le mazze.
Io aspetto tre ore in banchina cazzeggiando con i muggini e con Marko che aiuto mentre fa manutenzione al motore del motoscafo.
Poi li vedo tornare, il Signor B. cammina dritto come un fuso ed ha un sorriso stampato in faccia, gli altri tre sono rovinati.
Il Pirla sembra un “Ecce Homo” sanguina da due milioni di graffi e stringe una busta piena di palline da golf come se fosse un tesoro.
Prova a sorridere e dice a voce non così alta “ Cinquantadue”, e si accascia nel gommone.
Li ha usati come cani da cerca e li ha lanciati in tutti i roveti del green.
Mi sa che hanno capito.
Il babbo ha dovuto attrezzare il tangone con un’imbragatura di fortuna che aveva predisposto anni prima per sollevare Min e Chione i due bassethound di un’ospite del Sig.B.
Il problema è la Rapa, si è imbizzarrita e non ne ha voluto sapere della biscaglina predisposta per cui la stiamo virando a bordo con tutte le cautele del caso e lei sembra contenta del trattamento.
I due cani in realtà non si chiamavano così però il comandante ricorda che uno era femmina e uno maschio.
La femmina era venuta su bene, il maschio, un possente cane di una quarantina di chili si era mosso e aveva cominciato a ululare come un pazzo agitandosi e rischiando di cadere in mare.
Una volta a bordo avevano verificato che l’imbragatura gli aveva pinzato i gioielli di famiglia, che peraltro valevano metà del peso del cane, e la padrona urlava “ Aiuto il mio Pucci, me lo avete rovinato”, il babbo gli aveva gentilmente fatto notare che nessuno gli aveva segnalato il carico sporgente.
Slego la vecchia che facendo risuonare il bastone sulla coperta si dirige verso poppa dove sono in atto i festeggiamenti di rito.
Francè si muove a velocità pericolosa da una parte all’altra del Galateia, sembra traslare sui cuscinetti a sfera, la bambina ha tirato fuori la chitarra e intona una tammuriata che ritengo sia un’ode al Signor B. e alla possibile eredità, la Grinza ha salutato e si è infilata in cabina richiedendo un frullato di verdura, il nano bambino sta in disparte e il pirla parla a voce altissima.
Prima succhiata di denti.
Loda apertamente la barca, l’equipaggio, la fortuna del Signor B.
Seconda succhiata di denti.
Loda la Sardegna, Cala di Volpe ed il Pevero.
Terza succhiata di denti, sembra intenzionato a divoralo lì in coperta, lo vedo già sanguinante come un Gnù che esala l’ultimo respiro.
“Tutti al Golf, esentati Francè e la vecchia” tuona il Signor B.
Li riporto a terra e spariscono, non so dove vadano, io nel golf non ci sono mai entrato, ma ancora una volta non portano le mazze.
Io aspetto tre ore in banchina cazzeggiando con i muggini e con Marko che aiuto mentre fa manutenzione al motore del motoscafo.
Poi li vedo tornare, il Signor B. cammina dritto come un fuso ed ha un sorriso stampato in faccia, gli altri tre sono rovinati.
Il Pirla sembra un “Ecce Homo” sanguina da due milioni di graffi e stringe una busta piena di palline da golf come se fosse un tesoro.
Prova a sorridere e dice a voce non così alta “ Cinquantadue”, e si accascia nel gommone.
Li ha usati come cani da cerca e li ha lanciati in tutti i roveti del green.
Mi sa che hanno capito.
giovedì 9 aprile 2009
Credimi
Non ho il dono di ricordarmi nomi, gradi di parentela, incroci incestuosi, alberi genealogici.
Per questo c’è la Zia Elsa, lei ricorda tutto di tutti, è l’anagrafe non ufficiale, sa citarti date di nascita, di morte e soprannomi di almeno sessantamila persone.
Tu gli fai la domanda, lei ti guarda con i suoi occhioni tipici della nostra famiglia, verdi con delle pagliuzze dorate dentro che sembrano stelline, sorride con i suoi quattro denti, due di sopra e due di sotto e tira fuori la scheda dell’incriminato.
Io quando mi chiedono la differenza fra cognata e cugina di terzo grado sbianco e comincio a tartagliare.
Forse sono un po’ scemo, ma sopravvivo comunque nell’ignoranza delle logiche con cui il genere umano si imparenta.
Fatto sta che quando arriva la banda io non mi ci raccapezzo per niente, mi hanno spiegato che la Pupa, la sorella del signor B. ha due figli è sposata con un pirla che ha fatto fallire un numero imprecisato di ditte usando i soldi della moglie, ma lei non viene.
Manda il babbastro, o patrigno o come cazzo si chiama, sposato in seconde nozze dalla mamma napoletana, tal conte del maschio Angioino detto Francè dagli amici.
Poi c’è il pirla stesso, rampante quarantenne padano e la Rapa, una cugina ottuagenaria di non so chi.
Solo la Grinza mi è nota, è la compagna del signor B. da tempo immemore, la moglie vera sta nella foresta nera, è un’ex attrice e penso sia vecchia e paralizzata.
Nonostante si siano sposati e lasciati da giovani il signor B. la va a trovare una volta all’anno e provvede a tutte le sue esigenze.
Lo sforzo di ricordarmi tutto questo mi ha debilitato sensibilmente, li vado a prendere con il gommone con un po’ di preoccupazione e con il cuore trepidante.
Accosto alla banchina dell’albergo Cala di Volpe , extra lusso credimi, e saluto con un cenno la signora S. che mi sorride e sale a bordo svelta.
Mi tengo con una mano alla banchina di finto granito, molto abrasiva credimi, e ho dato volta ad una bitta con la barbetta di prua.
Reputo che così il mezzo sia abbastanza stabile da consentire di salire a bordo in maniera agevole agli ospiti ma non ho fatto i conti con Francè.
E’ il secondo della fila, over settanta, una faccia simpaticissima alto come un barattolo di conserva.
Sembra l’omino dipinto sulle caffettiere Bialetti, ha un panama in testa , baffi sottili, pancia a botte e gambe cortissime.
Al grido di “Piede marino, Piede Marino” fa un saltello improbabile sul tubolare del gommone, rimbalza all’indietro, da una culata sonora sulla banchina ricade in avanti schiantandosi sul pagliolo e perdendo il panama in acqua.
Gli altri non fanno una piega, io lo volto sulla schiena e lo trovo sorridente che mi fa “Piede Marino, Piede Marino”
E’ pazzo.
Recupero il panama e faccio salire il pirla che manco mi saluta, la Rapa che, nonostante il bastone, si comporta bene e attendo i nipoti con il cuore in gola.
E ti pareva, la bambina ha dieci anni e porta con se una chitarra, il quindicenne è maschio e basso come il nonnastro.
Mi hanno fottuto.
Credimi.
Per questo c’è la Zia Elsa, lei ricorda tutto di tutti, è l’anagrafe non ufficiale, sa citarti date di nascita, di morte e soprannomi di almeno sessantamila persone.
Tu gli fai la domanda, lei ti guarda con i suoi occhioni tipici della nostra famiglia, verdi con delle pagliuzze dorate dentro che sembrano stelline, sorride con i suoi quattro denti, due di sopra e due di sotto e tira fuori la scheda dell’incriminato.
Io quando mi chiedono la differenza fra cognata e cugina di terzo grado sbianco e comincio a tartagliare.
Forse sono un po’ scemo, ma sopravvivo comunque nell’ignoranza delle logiche con cui il genere umano si imparenta.
Fatto sta che quando arriva la banda io non mi ci raccapezzo per niente, mi hanno spiegato che la Pupa, la sorella del signor B. ha due figli è sposata con un pirla che ha fatto fallire un numero imprecisato di ditte usando i soldi della moglie, ma lei non viene.
Manda il babbastro, o patrigno o come cazzo si chiama, sposato in seconde nozze dalla mamma napoletana, tal conte del maschio Angioino detto Francè dagli amici.
Poi c’è il pirla stesso, rampante quarantenne padano e la Rapa, una cugina ottuagenaria di non so chi.
Solo la Grinza mi è nota, è la compagna del signor B. da tempo immemore, la moglie vera sta nella foresta nera, è un’ex attrice e penso sia vecchia e paralizzata.
Nonostante si siano sposati e lasciati da giovani il signor B. la va a trovare una volta all’anno e provvede a tutte le sue esigenze.
Lo sforzo di ricordarmi tutto questo mi ha debilitato sensibilmente, li vado a prendere con il gommone con un po’ di preoccupazione e con il cuore trepidante.
Accosto alla banchina dell’albergo Cala di Volpe , extra lusso credimi, e saluto con un cenno la signora S. che mi sorride e sale a bordo svelta.
Mi tengo con una mano alla banchina di finto granito, molto abrasiva credimi, e ho dato volta ad una bitta con la barbetta di prua.
Reputo che così il mezzo sia abbastanza stabile da consentire di salire a bordo in maniera agevole agli ospiti ma non ho fatto i conti con Francè.
E’ il secondo della fila, over settanta, una faccia simpaticissima alto come un barattolo di conserva.
Sembra l’omino dipinto sulle caffettiere Bialetti, ha un panama in testa , baffi sottili, pancia a botte e gambe cortissime.
Al grido di “Piede marino, Piede Marino” fa un saltello improbabile sul tubolare del gommone, rimbalza all’indietro, da una culata sonora sulla banchina ricade in avanti schiantandosi sul pagliolo e perdendo il panama in acqua.
Gli altri non fanno una piega, io lo volto sulla schiena e lo trovo sorridente che mi fa “Piede Marino, Piede Marino”
E’ pazzo.
Recupero il panama e faccio salire il pirla che manco mi saluta, la Rapa che, nonostante il bastone, si comporta bene e attendo i nipoti con il cuore in gola.
E ti pareva, la bambina ha dieci anni e porta con se una chitarra, il quindicenne è maschio e basso come il nonnastro.
Mi hanno fottuto.
Credimi.
mercoledì 8 aprile 2009
Maimort
Ammaino come tutte le sere la bandiera tedesca prima che si bagni di rugiada.
Mi sono fatto un rituale personale, attendo che tramonti il sole dietro il monte, sospiro una volta, sciolgo il nodo bandiera, che l’hanno chiamato così apposta, e poi la tiro giù con un sorriso.
Come tutti i figli dei figli della linea gotica non nutro particolare simpatia per quel vessillo ed ammainarlo mi da sempre quasi una gioia.
L’infanzia del babbo è fatta di mine, morti, bombardamenti, sfollamenti, fame, dolore.
Ma lui ne parla serenamente, dosando gli aneddoti e raccontando solo quello che ritiene possa essere raccontato, rimarca le avventure e le rende quasi fantastiche, riesce a rendere la paura e l’angoscia che deve aver provato un filo sottile sotto la storia che ti acchiappa e ti porta con se in quel confine di terra conteso da tutti.
Le hanno buscate dai tedeschi, dai fascisti, dagli americani e le azioni di rappresaglia contro i civili per la guerriglia dei partigiani hanno creato risentimento anche verso questi ultimi.
Ma un bel ricordo c’è l’ha.
“Ba t’ ‘m arcont ‘dl Maimort?”
“ Li chiamavamo Maimorti perchè avevano una spilla con il teschio ed i pugnali, erano gli squadristi quelli duri, quelli veramente stronzi.
C’era sempre un posto di blocco a metà strada fra il paese dove eravamo sfollati e Marinella dove andavo a raccattare la verdura e la frutta nei campi incolti.
Quell’estate c’era un’abbondanza incredibile in quell’area circondata dai campi minati anche se nessuno aveva badato alle colture. Nessuno si azzardava ad avvicinarsi, nemmeno i tedeschi, troppo pericoloso.
Ma io avevo lavorato alla Todt per costruire il muraglione e avevo visto lo schema che usavano per piazzare le mine e me lo ero disegnato.
Uscivo di notte e mi infilavo nei campi appena faceva giorno, poi con le mie sporte piene tornavo al paesello di montagna a otto chilometri di distanza passando dove gli altri non potevano.
Quel giorno ero stanco o distratto fatto sta che vicino al posto di blocco che stavo aggirando furtivamente mi faccio beccare da un Maimort.
Era di Marina anche lui un po’ più grande di me e con gli occhi da topo vicini piccoli e cattivi.”
“Dot và? Pos lì le borse e ven con me”
“Non ero proprio preoccupato ma quello mi punta il mitra alla testa e mi dice di camminare”
“ T sen sfolat al mont?”
“Si”
“A ti port me fin là, fin alla tomba d’l partigian, po’ at amaz”
“Ero un bambino e non volevo morire, soprattutto non così vicino alla mamma e alle sorelle, saltare su una mina l’avevo messo in conto, ma così no”
“ Quattro chilometri con questa canna che mi grattava il collo e lui dietro, io che cercavo un appiglio, una via di fuga, ma niente, arriviamo alla tomba del partigiano.”
“Mi fermo, lui sempre dietro, chiudo gli occhi e sento un tonfo, mi giro e lo vedo steso a terra ai piedi di un partigiano”
“ Và ninin e pens me”
“Pensavo fosse morto, ma dopo la guerra l’ho rincontrato sulla spiaggia a Marina”
“T m’arconosc?”
“No”
“Mirm ben”
“Cazzo”
“L’ho preso a calci in culo per un pò di spiaggia, inizialmente volevo portarlo fino al fiume, poi mi sono stancato e sai una cosa?”
“No”
“Non ci ho provato nessun gusto, non potevo mettermi al suo livello, guerra o non guerra forza o debolezza non c’entrano niente, non potevo permettergli di togliermi qualcos’altro."
Mi sono fatto un rituale personale, attendo che tramonti il sole dietro il monte, sospiro una volta, sciolgo il nodo bandiera, che l’hanno chiamato così apposta, e poi la tiro giù con un sorriso.
Come tutti i figli dei figli della linea gotica non nutro particolare simpatia per quel vessillo ed ammainarlo mi da sempre quasi una gioia.
L’infanzia del babbo è fatta di mine, morti, bombardamenti, sfollamenti, fame, dolore.
Ma lui ne parla serenamente, dosando gli aneddoti e raccontando solo quello che ritiene possa essere raccontato, rimarca le avventure e le rende quasi fantastiche, riesce a rendere la paura e l’angoscia che deve aver provato un filo sottile sotto la storia che ti acchiappa e ti porta con se in quel confine di terra conteso da tutti.
Le hanno buscate dai tedeschi, dai fascisti, dagli americani e le azioni di rappresaglia contro i civili per la guerriglia dei partigiani hanno creato risentimento anche verso questi ultimi.
Ma un bel ricordo c’è l’ha.
“Ba t’ ‘m arcont ‘dl Maimort?”
“ Li chiamavamo Maimorti perchè avevano una spilla con il teschio ed i pugnali, erano gli squadristi quelli duri, quelli veramente stronzi.
C’era sempre un posto di blocco a metà strada fra il paese dove eravamo sfollati e Marinella dove andavo a raccattare la verdura e la frutta nei campi incolti.
Quell’estate c’era un’abbondanza incredibile in quell’area circondata dai campi minati anche se nessuno aveva badato alle colture. Nessuno si azzardava ad avvicinarsi, nemmeno i tedeschi, troppo pericoloso.
Ma io avevo lavorato alla Todt per costruire il muraglione e avevo visto lo schema che usavano per piazzare le mine e me lo ero disegnato.
Uscivo di notte e mi infilavo nei campi appena faceva giorno, poi con le mie sporte piene tornavo al paesello di montagna a otto chilometri di distanza passando dove gli altri non potevano.
Quel giorno ero stanco o distratto fatto sta che vicino al posto di blocco che stavo aggirando furtivamente mi faccio beccare da un Maimort.
Era di Marina anche lui un po’ più grande di me e con gli occhi da topo vicini piccoli e cattivi.”
“Dot và? Pos lì le borse e ven con me”
“Non ero proprio preoccupato ma quello mi punta il mitra alla testa e mi dice di camminare”
“ T sen sfolat al mont?”
“Si”
“A ti port me fin là, fin alla tomba d’l partigian, po’ at amaz”
“Ero un bambino e non volevo morire, soprattutto non così vicino alla mamma e alle sorelle, saltare su una mina l’avevo messo in conto, ma così no”
“ Quattro chilometri con questa canna che mi grattava il collo e lui dietro, io che cercavo un appiglio, una via di fuga, ma niente, arriviamo alla tomba del partigiano.”
“Mi fermo, lui sempre dietro, chiudo gli occhi e sento un tonfo, mi giro e lo vedo steso a terra ai piedi di un partigiano”
“ Và ninin e pens me”
“Pensavo fosse morto, ma dopo la guerra l’ho rincontrato sulla spiaggia a Marina”
“T m’arconosc?”
“No”
“Mirm ben”
“Cazzo”
“L’ho preso a calci in culo per un pò di spiaggia, inizialmente volevo portarlo fino al fiume, poi mi sono stancato e sai una cosa?”
“No”
“Non ci ho provato nessun gusto, non potevo mettermi al suo livello, guerra o non guerra forza o debolezza non c’entrano niente, non potevo permettergli di togliermi qualcos’altro."
giovedì 2 aprile 2009
Parpaion
La routine del Signor B. è piuttosto banale e votata alla tranquillità più totale.
Sono interdetto, pensavo fosse un vulcano sprizzante di energia e me lo ritrovo che compra il giornale , si fa portare alla spiaggia per un bagnetto quando non c’è ancora nessuno, si intossica di beveroni a base di crusca e yogurt, visita il golf club senza mazze al seguito e torna beato e sogghignante.
A tavola sbafa tutto il ben di Dio che gli propone Giulio con velocità, alla faccia del morigerato, e poi si mette in coperta, si succhia i denti e scorreggia disinvolto, senza alcuna preoccupazione.
Con il babbo scambia qualche parola ogni tanto, il comandante fuma e annuisce, sembra preparino un piano.
Quando lo sbarco con il gommone da qualche parte mi ringrazia gentile con la sua voce profonda e ha una faccia veramente divertita , ma che cazzo sta pensando?
Mah.
Provo a chiedere lumi mentre ci spostiamo verso Cugnana Verde, che è in realtà ad un tiro di sputo ma è l’unico punto in cui si vede la televisione.
Il rapporto di equipaggio e armatore con la vita mondana ivi compresi radio e televisione sono alquanto particolari, nulla completo, silenzio a bordo e solo storie ed aneddoti raccontati come passatempo.
Ma stasera inizia il mondiale di calcio e si fa uno strappo alla regola.
A Vigo l’Italia incontra la Polonia ed è tutto un polemizzare sulle scelte di Bearzot, Beccalossi a casa , Rossi che rientra dalla squalifica, Pruzzo nemmeno considerato.
A me basta che giochi Antognoni e sono contento.
“ Ba ma cos I à ‘l signor B.?”
“ Carica le pile per l’arrivo dei bagnanti e della Signora, li deve accogliere adeguatamente”
“Mi stavo preoccupando, mi sembrava rincoglionito”
“Not preoccupar, ili fa neri”
“Ma perché mi guarda e ride?”
“Niente, è che arrivano anche due suoi nipoti, i potenziali eredi,un maschio ed una femmina di dieci e quindici anni”
“…………”
“ Cos tà”
“Niente”
Cazzo mi si è messo in moto l’ormone, una quindicenne napoletana da conquistare con le mie prodezze marinare ed il mio sguardo magnetico.
Comincio ad elucubrare strategie elaborate per trovarmi solo con lei, magari sul gommone, magari al tramonto sulla spiaggia quella piccolina che si vede ad est l’isola dei topi, magari non le dico che si chiama così che si impressiona si sa che le adolescenti napoletane sono sensibili e non voglio spaventarla subito, magari poi facciamo il bagno e le mostro come si gira la testa al polpo e si sbatacchia sullo scoglio per renderlo pìù tenero, no anche questo è meglio non……
“ A tò dit cos tà, t m par un parpaion”
Parpaione nome volgare del vespertilio maggiore (Myotis myotis Borkhausen, 1797) è un mammifero chirottero della famiglia dei Vespertilionidi.
Pipistrello insomma, mi sono fatto prendere dalla sindrome del Trivial Pursuit, effettivamente sto svolazzando per la coperta ma lo sguardo divertito dei miei carnefici mi fa sospettare la fregatura.
Vedremo.
“ Dai che ‘stsera a vincen”
Infatti, zero a zero, partita di merda e Boniek sugli scudi, Rossi sostituito fra i fischi e Bearzot che dichiara il silenzio stampa.
Buoni auspici
Sono interdetto, pensavo fosse un vulcano sprizzante di energia e me lo ritrovo che compra il giornale , si fa portare alla spiaggia per un bagnetto quando non c’è ancora nessuno, si intossica di beveroni a base di crusca e yogurt, visita il golf club senza mazze al seguito e torna beato e sogghignante.
A tavola sbafa tutto il ben di Dio che gli propone Giulio con velocità, alla faccia del morigerato, e poi si mette in coperta, si succhia i denti e scorreggia disinvolto, senza alcuna preoccupazione.
Con il babbo scambia qualche parola ogni tanto, il comandante fuma e annuisce, sembra preparino un piano.
Quando lo sbarco con il gommone da qualche parte mi ringrazia gentile con la sua voce profonda e ha una faccia veramente divertita , ma che cazzo sta pensando?
Mah.
Provo a chiedere lumi mentre ci spostiamo verso Cugnana Verde, che è in realtà ad un tiro di sputo ma è l’unico punto in cui si vede la televisione.
Il rapporto di equipaggio e armatore con la vita mondana ivi compresi radio e televisione sono alquanto particolari, nulla completo, silenzio a bordo e solo storie ed aneddoti raccontati come passatempo.
Ma stasera inizia il mondiale di calcio e si fa uno strappo alla regola.
A Vigo l’Italia incontra la Polonia ed è tutto un polemizzare sulle scelte di Bearzot, Beccalossi a casa , Rossi che rientra dalla squalifica, Pruzzo nemmeno considerato.
A me basta che giochi Antognoni e sono contento.
“ Ba ma cos I à ‘l signor B.?”
“ Carica le pile per l’arrivo dei bagnanti e della Signora, li deve accogliere adeguatamente”
“Mi stavo preoccupando, mi sembrava rincoglionito”
“Not preoccupar, ili fa neri”
“Ma perché mi guarda e ride?”
“Niente, è che arrivano anche due suoi nipoti, i potenziali eredi,un maschio ed una femmina di dieci e quindici anni”
“…………”
“ Cos tà”
“Niente”
Cazzo mi si è messo in moto l’ormone, una quindicenne napoletana da conquistare con le mie prodezze marinare ed il mio sguardo magnetico.
Comincio ad elucubrare strategie elaborate per trovarmi solo con lei, magari sul gommone, magari al tramonto sulla spiaggia quella piccolina che si vede ad est l’isola dei topi, magari non le dico che si chiama così che si impressiona si sa che le adolescenti napoletane sono sensibili e non voglio spaventarla subito, magari poi facciamo il bagno e le mostro come si gira la testa al polpo e si sbatacchia sullo scoglio per renderlo pìù tenero, no anche questo è meglio non……
“ A tò dit cos tà, t m par un parpaion”
Parpaione nome volgare del vespertilio maggiore (Myotis myotis Borkhausen, 1797) è un mammifero chirottero della famiglia dei Vespertilionidi.
Pipistrello insomma, mi sono fatto prendere dalla sindrome del Trivial Pursuit, effettivamente sto svolazzando per la coperta ma lo sguardo divertito dei miei carnefici mi fa sospettare la fregatura.
Vedremo.
“ Dai che ‘stsera a vincen”
Infatti, zero a zero, partita di merda e Boniek sugli scudi, Rossi sostituito fra i fischi e Bearzot che dichiara il silenzio stampa.
Buoni auspici
giovedì 26 marzo 2009
Acqua ed aria
“Porto Cervo Porto Cervo Radio, qui Galateia”
“Porto Cervo Porto Cervo Radio, qui Galateia”
Merda
“Livorno Radio Livorno Radio, qui Galateia”
“Livorno Radio Livorno Radio, qui Galateia”
Merda
In mare non è mai semplice niente, nemmeno telefonare alla mamma.
“Porto Cervo Porto Cerv….”
“Qui Livorno Radio, avanti Galateia, passo”
“ Buon giorno Livorno Radio, il nostro identificativo internazionale è il JSTG6T vorremmo parlare con il seguente numero telefonico 0585 785473 passo”
“Registrati, previsto collegamento 15 minuti, buona giornata Galateia, chiudo”
Minchia come mi sento figo mentre riappendo il microfono in bachelite del VHF.
Guardo perplesso l’apparecchio mastodontico pieno di manopole che pare depositato sul mobile da un ghiacciaio durante il paleolitico.
Marconi li costruiva più piccoli i VHF.
Ritengo di aver tempo per una serie serrata di tuffi da ogni sporgenza della barca prima che Livorno Radio si faccia viva.
Mi spoglio e resto con un improbabile costumino rosso aderente dell’Arena.
A me piacciono i bermuda, ma per tuffarsi non vanno bene, restare nudi come vermi è un attimo.
Inizio con il tuffo di prua dal carabottino, proprio sopra l’ancora sottovento, quella che non è stata calata a mare.
Salgo sulla falchetta , saranno un due metri e mezzo dall’acqua, l’altezza giusta per fare qualsiasi cazzata senza fracassarsi un organo interno.
Opto per un superman carpiato, respiro a fondo e salto.
Tuffarsi è bellissimo, la sensazione di lieve vertigine prima di saltare, il battito che aumenta, il volo in aria e l’acqua che sembra non arrivare mai mentre esegui il movimento.
Poi il fresco dell’acqua, prima sulle mani, poi lungo il corpo, e tu che stai attento, all’ultimo momento dai il colpo di reni e contrai gli addominali per entrare come una spada e non sollevare spruzzi.
L’acqua si chiude sui tuoi piedi tesi e sigilla tutto, che tu abbia fatto bene o male ora sei dentro di lei.
E poi ti lasci andare un po’ verso il fondo, completamente rilassato ti incurvi e seguendo le bolle che ti escono dal naso torni su.
C’è una canzone che dice “ Volevo essere un tuffatore per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria”
Ecco, è così, non so spiegarlo meglio.
Mentre torno velocemente alla scaletta appare sul tettuccio della timoneria il comandante, saranno un 5 metri buoni.
Resto veramente sorpreso perché lui il bagno non lo fa mai.
Ha la stessa tenuta tutto l’anno e capisco che è inverno quando sotto i calzoni corti spuntano i calzini di lana.
Il volto, le gambe, le braccia sono cotte dal sole, tutto il resto, compresa la pancia prominente dura come un tamburo e violata da una cicatrice terribile sul fianco destro, sono bianchissimi.
Mi sorride e salta.
Cazzo sapevo che era un maestro da ragazzo ma non l’ho mai visto tuffarsi, le nostre estati non sono mai state trascorse insieme.
E’ un tuffo semplice ma molto bello, come me chiude il movimento molto presto e controlla di essere in verticale , poi entra in acqua con pochi schizzi e sparisce.
Sparisce un po’ troppo, non riaffiora per diversi secondi.
Quando reputo che le MS non dovrebbero concedergli tutta quell’apnea mi immergo e lo vado a prendere spaventatissimo.
Lo trovo subito che annaspa e non capisco cosa sia successo, è in stato confusionale e non sa dov’è la superficie.
Mentre lo trascino a galla mi viene in mente che quest’inverno ha fatto un piccolo intervento al timpano e gli hanno inserito un drenaggio.
Ha preso una fucilata in pieno orecchio interno, ma si riprende velocemente.
Quando arriviamo alla scaletta in qualche modo riesce a risalire e stremati ci sdraiamo sulla coperta calda.
“Galateia Galateia qui Livorno Radio”
Cazzo mamma và tutto bene, và tutto bene.
“Porto Cervo Porto Cervo Radio, qui Galateia”
Merda
“Livorno Radio Livorno Radio, qui Galateia”
“Livorno Radio Livorno Radio, qui Galateia”
Merda
In mare non è mai semplice niente, nemmeno telefonare alla mamma.
“Porto Cervo Porto Cerv….”
“Qui Livorno Radio, avanti Galateia, passo”
“ Buon giorno Livorno Radio, il nostro identificativo internazionale è il JSTG6T vorremmo parlare con il seguente numero telefonico 0585 785473 passo”
“Registrati, previsto collegamento 15 minuti, buona giornata Galateia, chiudo”
Minchia come mi sento figo mentre riappendo il microfono in bachelite del VHF.
Guardo perplesso l’apparecchio mastodontico pieno di manopole che pare depositato sul mobile da un ghiacciaio durante il paleolitico.
Marconi li costruiva più piccoli i VHF.
Ritengo di aver tempo per una serie serrata di tuffi da ogni sporgenza della barca prima che Livorno Radio si faccia viva.
Mi spoglio e resto con un improbabile costumino rosso aderente dell’Arena.
A me piacciono i bermuda, ma per tuffarsi non vanno bene, restare nudi come vermi è un attimo.
Inizio con il tuffo di prua dal carabottino, proprio sopra l’ancora sottovento, quella che non è stata calata a mare.
Salgo sulla falchetta , saranno un due metri e mezzo dall’acqua, l’altezza giusta per fare qualsiasi cazzata senza fracassarsi un organo interno.
Opto per un superman carpiato, respiro a fondo e salto.
Tuffarsi è bellissimo, la sensazione di lieve vertigine prima di saltare, il battito che aumenta, il volo in aria e l’acqua che sembra non arrivare mai mentre esegui il movimento.
Poi il fresco dell’acqua, prima sulle mani, poi lungo il corpo, e tu che stai attento, all’ultimo momento dai il colpo di reni e contrai gli addominali per entrare come una spada e non sollevare spruzzi.
L’acqua si chiude sui tuoi piedi tesi e sigilla tutto, che tu abbia fatto bene o male ora sei dentro di lei.
E poi ti lasci andare un po’ verso il fondo, completamente rilassato ti incurvi e seguendo le bolle che ti escono dal naso torni su.
C’è una canzone che dice “ Volevo essere un tuffatore per rinascere ogni volta dall’acqua all’aria”
Ecco, è così, non so spiegarlo meglio.
Mentre torno velocemente alla scaletta appare sul tettuccio della timoneria il comandante, saranno un 5 metri buoni.
Resto veramente sorpreso perché lui il bagno non lo fa mai.
Ha la stessa tenuta tutto l’anno e capisco che è inverno quando sotto i calzoni corti spuntano i calzini di lana.
Il volto, le gambe, le braccia sono cotte dal sole, tutto il resto, compresa la pancia prominente dura come un tamburo e violata da una cicatrice terribile sul fianco destro, sono bianchissimi.
Mi sorride e salta.
Cazzo sapevo che era un maestro da ragazzo ma non l’ho mai visto tuffarsi, le nostre estati non sono mai state trascorse insieme.
E’ un tuffo semplice ma molto bello, come me chiude il movimento molto presto e controlla di essere in verticale , poi entra in acqua con pochi schizzi e sparisce.
Sparisce un po’ troppo, non riaffiora per diversi secondi.
Quando reputo che le MS non dovrebbero concedergli tutta quell’apnea mi immergo e lo vado a prendere spaventatissimo.
Lo trovo subito che annaspa e non capisco cosa sia successo, è in stato confusionale e non sa dov’è la superficie.
Mentre lo trascino a galla mi viene in mente che quest’inverno ha fatto un piccolo intervento al timpano e gli hanno inserito un drenaggio.
Ha preso una fucilata in pieno orecchio interno, ma si riprende velocemente.
Quando arriviamo alla scaletta in qualche modo riesce a risalire e stremati ci sdraiamo sulla coperta calda.
“Galateia Galateia qui Livorno Radio”
Cazzo mamma và tutto bene, và tutto bene.
lunedì 23 marzo 2009
Reti
La barca è sempre addormentata alle prime luci dell’alba, il mare è completamente piatto e non spira un alito di vento, solo lo sciabordio dello Zodiac contro la fiancata sembra dare vita alla giornata.
Scendo lentamente la scaletta mentre il caffè fa effetto e scaccia con un brivido il sonno dalla testa.
Il Babbo mi segue, come al solito silenzioso come un gatto, pinzando il bordo della scala con le mani.
Si mette ai remi e ci allontaniamo attenti a non rompere l’incantesimo, come imbarcazione da voga il gommone fa schifo ma con la bonaccia e l’abilità del comandante andiamo ad un’andatura discreta.
Una volta allontanatoci metto in moto il motore e mi sembra di violare un monastero, lo metto al minimo e ronzando ci dirigiamo verso il gavitello.
Ieri sera abbiamo calato le retine, non tanta roba saranno duecento metri di tramaglio, e non è propriamente previsto come sistema ludico di pesca.
Abbiamo calato con un segnale solo usando un parabordo piccolo che sembrasse perso da qualche diportista distratto, come zavorra abbiamo usato due zinchi dell’elica e fanno il loro dovere.
Non ho mai pescato con le reti, è un sistema che non mi affascina , non prevede un confronto di abilità diretto fra preda e predatore , lo assimilo più alla raccolta che alla caccia.
Ma tant’è sempre di pesci si tratta e io non ho dormito una minchia per la trepidazione.
Non ci siamo ancora rivolti una parola solo adesso il Bà mi dice “ Tir su”.
Ci scambiamo posto e afferro il parabordo, recuperando tutta la caluma arrivo allo zinco poi, dopo dieci bracciate, alla rete.
Provo a tirare ma è piuttosto pesante, forse si è arroccata su uno scoglio, strano perché abbiamo calato fra sabbia e posidonia.
Il babbo mi prende gentilmente la rete dalle mani e comincia a recuperare, mi pare senza fatica.
Mi sa che la mancata evirazione ha avuto conseguenze gravi per il mio fisico.
Io ripongo la rete nel cestone e aspetto di vedere qualche pesce.
Qualche?
Cazzo non ci posso credere è l’albero della cuccagna, soglioloni giganti, rombi, razze nere e pericolose che sferzano l’aria con il loro aculeo sulla coda, Il babbo le guarda un po’ schifato ma a me sembrano meravigliose e ancora triglie e qualche seppia.
Prendo al volo un polpo che si era attardato a divorare una corvina intramagliata e poi pesci prete e qualche scorfano.
Il pesce prete è bellissimo, vive sul fondo ed ha la bocca in verticale, assomiglia ad un pugile o ad un bulldog e a me piace tantissimo fatto in umido.
Andiamo a remi fino alla spiaggia più vicina e mentre il sole fa capolino sul mare ad est cominciamo a pulire la rete.
E’ necessario farlo subito e mentre sfiliamo gli scorfani con precauzione dalle maglie usando il metodo soft, testa schiacciata dai due zinchi, cominciano ad arrivare le api.
Non pungono ma sono moleste e fastidiose, quando provano ad infilarsi nel naso storto del babbo lui le scaccia con una sbuffata stile elefante.
La baia si sta svegliando e dobbiamo fare presto, già i primi francesi si tuffano dalle barchette a vela.
“ Bà ma prchè I fan ‘l bagn alle se ‘d matina?”
“ Cagano”
Mi ha devastato la poesia ma ora mi spiego tante cose.
Scendo lentamente la scaletta mentre il caffè fa effetto e scaccia con un brivido il sonno dalla testa.
Il Babbo mi segue, come al solito silenzioso come un gatto, pinzando il bordo della scala con le mani.
Si mette ai remi e ci allontaniamo attenti a non rompere l’incantesimo, come imbarcazione da voga il gommone fa schifo ma con la bonaccia e l’abilità del comandante andiamo ad un’andatura discreta.
Una volta allontanatoci metto in moto il motore e mi sembra di violare un monastero, lo metto al minimo e ronzando ci dirigiamo verso il gavitello.
Ieri sera abbiamo calato le retine, non tanta roba saranno duecento metri di tramaglio, e non è propriamente previsto come sistema ludico di pesca.
Abbiamo calato con un segnale solo usando un parabordo piccolo che sembrasse perso da qualche diportista distratto, come zavorra abbiamo usato due zinchi dell’elica e fanno il loro dovere.
Non ho mai pescato con le reti, è un sistema che non mi affascina , non prevede un confronto di abilità diretto fra preda e predatore , lo assimilo più alla raccolta che alla caccia.
Ma tant’è sempre di pesci si tratta e io non ho dormito una minchia per la trepidazione.
Non ci siamo ancora rivolti una parola solo adesso il Bà mi dice “ Tir su”.
Ci scambiamo posto e afferro il parabordo, recuperando tutta la caluma arrivo allo zinco poi, dopo dieci bracciate, alla rete.
Provo a tirare ma è piuttosto pesante, forse si è arroccata su uno scoglio, strano perché abbiamo calato fra sabbia e posidonia.
Il babbo mi prende gentilmente la rete dalle mani e comincia a recuperare, mi pare senza fatica.
Mi sa che la mancata evirazione ha avuto conseguenze gravi per il mio fisico.
Io ripongo la rete nel cestone e aspetto di vedere qualche pesce.
Qualche?
Cazzo non ci posso credere è l’albero della cuccagna, soglioloni giganti, rombi, razze nere e pericolose che sferzano l’aria con il loro aculeo sulla coda, Il babbo le guarda un po’ schifato ma a me sembrano meravigliose e ancora triglie e qualche seppia.
Prendo al volo un polpo che si era attardato a divorare una corvina intramagliata e poi pesci prete e qualche scorfano.
Il pesce prete è bellissimo, vive sul fondo ed ha la bocca in verticale, assomiglia ad un pugile o ad un bulldog e a me piace tantissimo fatto in umido.
Andiamo a remi fino alla spiaggia più vicina e mentre il sole fa capolino sul mare ad est cominciamo a pulire la rete.
E’ necessario farlo subito e mentre sfiliamo gli scorfani con precauzione dalle maglie usando il metodo soft, testa schiacciata dai due zinchi, cominciano ad arrivare le api.
Non pungono ma sono moleste e fastidiose, quando provano ad infilarsi nel naso storto del babbo lui le scaccia con una sbuffata stile elefante.
La baia si sta svegliando e dobbiamo fare presto, già i primi francesi si tuffano dalle barchette a vela.
“ Bà ma prchè I fan ‘l bagn alle se ‘d matina?”
“ Cagano”
Mi ha devastato la poesia ma ora mi spiego tante cose.
lunedì 16 marzo 2009
Dolore
Mi sono chiuso il pisello in un cassetto.
Non so come ho fatto ma questo è il risultato.
E’ il degno coronamento di uno dei miei “periodi di sangue”.
Di solito vado a strisce, per un po’ non mi faccio nulla poi comincio con un taglio di coltello nel polpastrello, grattugiamento di ginocchio contro uno scoglio, distorsione alla caviglia, trauma costale facendo un tuffo eccetera, in un’escalation che di solito mi porta al pronto soccorso.
Poi mi calmo e attendo il periodo di sangue successivo.
Dovevo capirlo ieri quando per tirare ad un polpo mi sono sparato un colpo di cinque punte su una pinna.
Non so comè andata, insomma ero lì appena alzato e mi sono spogliato per cambiarmi , il babbo ed il cuoco erano a terra per portare il Signor B. al Golf e comprare i giornali, Gazzetta dello sport e nuova Sardegna.
Io mi godevo il momento di intimità e giravo per la cabina nudo con il bimbo un po’ barzotto, ho aperto il cassettone sotto al letto ho tirato fuori mutande, pantaloncini e maglietta con su scritto GALATEIA Y.C.I. e li ho stesi sul letto.
Poi mi sono sporto per prendere un Mister No che mi era caduto di mano addormentandomi e mi sono trovato con le cosce a contrasto con il bordo del letto, per qualche malsano motivo ho piegato le ginocchia e colpito il cassetto con le gambe.
In trappola.
Dolore mostruoso e sensazione di cesoiamento, sento talmente tanto male che non riesco a ragionare, il cassetto è chiuso quasi del tutto e non riesco ad infilare le mani nelle maniglie perché non le vedo.
Resto così per un tempo indefinito ed intanto sento che quello che è rimasto dentro, sempre che sia attaccato, comincia a gonfiarsi. Gioco il tutto per tutto, artiglio il bordo del cassetto con le unghie e scavando come un tasso riesco a scostare un po’ la tagliola.
Ho quasi risolto il problema principale che è quello di non farmi trovare da mio padre mentre mi accoppio con un mobile, cosa che non mi sarei mai perdonato.
Sfilo il flauto dalla custodia e valuto i danni.
Non sanguina ed è sempre intero però la punta mi pulsa ed è nero bluastra, non penso sia un bel segno.
Mentre ululo la frustrazione di non essere arrivato sano al mio primo rapporto sessuale zampetto in cucina alla ricerca di ghiaccio, penso a come sarà strano se me lo dovessero accorciare.
Mi vengono davanti agli occhi le mani senza falangi di Carlambrò, l’amico falegname di mio padre e piango nel silenzio della barca.
Mi ritrovano a letto con il lenzuolo tirato fin sotto al mento.
“ Cost’ à ninin, T stà mal?”
“ ‘Am fà mal la pancia , à dorm un pò”
Basta cassetti, da ora in poi solo scaffali.
Non so come ho fatto ma questo è il risultato.
E’ il degno coronamento di uno dei miei “periodi di sangue”.
Di solito vado a strisce, per un po’ non mi faccio nulla poi comincio con un taglio di coltello nel polpastrello, grattugiamento di ginocchio contro uno scoglio, distorsione alla caviglia, trauma costale facendo un tuffo eccetera, in un’escalation che di solito mi porta al pronto soccorso.
Poi mi calmo e attendo il periodo di sangue successivo.
Dovevo capirlo ieri quando per tirare ad un polpo mi sono sparato un colpo di cinque punte su una pinna.
Non so comè andata, insomma ero lì appena alzato e mi sono spogliato per cambiarmi , il babbo ed il cuoco erano a terra per portare il Signor B. al Golf e comprare i giornali, Gazzetta dello sport e nuova Sardegna.
Io mi godevo il momento di intimità e giravo per la cabina nudo con il bimbo un po’ barzotto, ho aperto il cassettone sotto al letto ho tirato fuori mutande, pantaloncini e maglietta con su scritto GALATEIA Y.C.I. e li ho stesi sul letto.
Poi mi sono sporto per prendere un Mister No che mi era caduto di mano addormentandomi e mi sono trovato con le cosce a contrasto con il bordo del letto, per qualche malsano motivo ho piegato le ginocchia e colpito il cassetto con le gambe.
In trappola.
Dolore mostruoso e sensazione di cesoiamento, sento talmente tanto male che non riesco a ragionare, il cassetto è chiuso quasi del tutto e non riesco ad infilare le mani nelle maniglie perché non le vedo.
Resto così per un tempo indefinito ed intanto sento che quello che è rimasto dentro, sempre che sia attaccato, comincia a gonfiarsi. Gioco il tutto per tutto, artiglio il bordo del cassetto con le unghie e scavando come un tasso riesco a scostare un po’ la tagliola.
Ho quasi risolto il problema principale che è quello di non farmi trovare da mio padre mentre mi accoppio con un mobile, cosa che non mi sarei mai perdonato.
Sfilo il flauto dalla custodia e valuto i danni.
Non sanguina ed è sempre intero però la punta mi pulsa ed è nero bluastra, non penso sia un bel segno.
Mentre ululo la frustrazione di non essere arrivato sano al mio primo rapporto sessuale zampetto in cucina alla ricerca di ghiaccio, penso a come sarà strano se me lo dovessero accorciare.
Mi vengono davanti agli occhi le mani senza falangi di Carlambrò, l’amico falegname di mio padre e piango nel silenzio della barca.
Mi ritrovano a letto con il lenzuolo tirato fin sotto al mento.
“ Cost’ à ninin, T stà mal?”
“ ‘Am fà mal la pancia , à dorm un pò”
Basta cassetti, da ora in poi solo scaffali.
giovedì 12 marzo 2009
Mister B.
Finalmente è arrivato, è sceso dal taxi srotolando il suo lungo corpo allampanato, si è messo in posizione, spalle e schiena dritte, ha allungato il passo, aperto un sorriso enorme ed ha teso la mano al Babbo.
Poi mi ha salutato calorosamente e mi ha guardato con quegli occhi blu intenso velati da quel velo di tristezza che hanno gli uomini senza figli quando guardano i figli degli altri.
Mi soppesa, ormai lo ho quasi raggiunto in altezza e sembra pensare a quando mi teneva in braccio. Lo conosco da sempre e me lo ricordo da piccolo come papà gamba lunga nel film di Fred Astaire, etereo, lungo lungo e con sempre un regalo in mano.
Quella luce quasi dolce nello sguardo la riserva solo a me, per il resto sembra intagliato in qualche materiale metallico piuttosto resistente.
Mascella quadrata, testa pelata coperta da qualche efelide e macchie di vecchiaia, corpo dritto come un fuso, piedi enormi, dentiera da combattimento, voce profonda.
E’ il Signor B., l’Om Nguilla.
Sprizza di energia ed è uomo anguilla per questo, per il suo movimento inarrestabile, non perché sia sfuggente anzi affronta le cose di petto e non scende a compromessi.
E’ un degno avversario del babbo e sono legati da un rispetto reciproco che ha sempre consentito di ricucire gli strappi inevitabili fra due caratterini del genere.
Saluta allegramente il cuoco e fa un cenno di approvazione al babbo quando rimira il Galateia in tutto il suo splendore.
I patti sono chiari, è lui l’armatore e decide cosa fare e dove andare ma l’anima della barca appartiene al comandante.
Sale a bordo ed io mi preoccupo dei bagagli e delle mazze da golf che sistemo accuratamente nella cabina armatoriale di poppa.
Non sembra per niente stanco mentre si accomoda in salone ed il cuoco gli prepara uno spuntino veloce.
Gli servo sulle tovagliette di bamboo che ho tolto dalla credenza un’insalata ed un petto di pollo, è morigerato specie da quando gli è venuto l’infarto, lui condisce il tutto con un bicchiere di latte.
Le abitudini alimentari sono un po’ strane, come le sue origini, padre tedesco e madre di Castellamare di Stabia, e dopo cena inizia la sola attività che innervosisca veramente il babbo, la succhiata di denti.
Al terzo suono sinistro, come se fosse un segnale, il comandante scende in sala macchina ed accende i suoi bambini, penso che abbia approfittato della discesa per stritolare qualche pezzo di metallo con le mani, risale dalla sala macchine trasportando i suoi cento e passa chili ad una velocità sorprendente, si mette ai comandi mentre io i Giulio molliamo gli ormeggi.
Torniamo ad essere un’isola al centro di una rada.
Poi mi ha salutato calorosamente e mi ha guardato con quegli occhi blu intenso velati da quel velo di tristezza che hanno gli uomini senza figli quando guardano i figli degli altri.
Mi soppesa, ormai lo ho quasi raggiunto in altezza e sembra pensare a quando mi teneva in braccio. Lo conosco da sempre e me lo ricordo da piccolo come papà gamba lunga nel film di Fred Astaire, etereo, lungo lungo e con sempre un regalo in mano.
Quella luce quasi dolce nello sguardo la riserva solo a me, per il resto sembra intagliato in qualche materiale metallico piuttosto resistente.
Mascella quadrata, testa pelata coperta da qualche efelide e macchie di vecchiaia, corpo dritto come un fuso, piedi enormi, dentiera da combattimento, voce profonda.
E’ il Signor B., l’Om Nguilla.
Sprizza di energia ed è uomo anguilla per questo, per il suo movimento inarrestabile, non perché sia sfuggente anzi affronta le cose di petto e non scende a compromessi.
E’ un degno avversario del babbo e sono legati da un rispetto reciproco che ha sempre consentito di ricucire gli strappi inevitabili fra due caratterini del genere.
Saluta allegramente il cuoco e fa un cenno di approvazione al babbo quando rimira il Galateia in tutto il suo splendore.
I patti sono chiari, è lui l’armatore e decide cosa fare e dove andare ma l’anima della barca appartiene al comandante.
Sale a bordo ed io mi preoccupo dei bagagli e delle mazze da golf che sistemo accuratamente nella cabina armatoriale di poppa.
Non sembra per niente stanco mentre si accomoda in salone ed il cuoco gli prepara uno spuntino veloce.
Gli servo sulle tovagliette di bamboo che ho tolto dalla credenza un’insalata ed un petto di pollo, è morigerato specie da quando gli è venuto l’infarto, lui condisce il tutto con un bicchiere di latte.
Le abitudini alimentari sono un po’ strane, come le sue origini, padre tedesco e madre di Castellamare di Stabia, e dopo cena inizia la sola attività che innervosisca veramente il babbo, la succhiata di denti.
Al terzo suono sinistro, come se fosse un segnale, il comandante scende in sala macchina ed accende i suoi bambini, penso che abbia approfittato della discesa per stritolare qualche pezzo di metallo con le mani, risale dalla sala macchine trasportando i suoi cento e passa chili ad una velocità sorprendente, si mette ai comandi mentre io i Giulio molliamo gli ormeggi.
Torniamo ad essere un’isola al centro di una rada.
venerdì 6 marzo 2009
Artu'
Nuova banchina di Olbia, c’è un piazzale immenso asfaltato di fresco che sotto il sole fa sentire tutto il suo odore di petrolio.
Sta montando maestrale ed il vento rimbalza sul terreno, ci arriva in faccia una folata calda di sabbia e pece.
Mettiamo fuori i parabordi dal lato sinistro e ci avviciniamo alla banchina , io sono di prua ed il cuoco di poppa con una cima per uno.
Il comandante accosta dolcemente e tiene la barca sui motori, con il vento che tenta di allontanarci dall’ormeggio.
Passo la cima dentro una campanella, un grosso anello, e faccio una gassa con il mio metodo.
La gassa, se la fai come ti insegnano a scuola, ti ci vogliono due mani e non la puoi eseguire con una cima in tensione, ho il mio sistema che mi consente di farla in scioltezza anche con una mano sola.
Passo la cima nell’anello, faccio un nodo semplice, lo giro verso il basso, faccio passare il dormiente sotto il corrente, la rinfilo nel nodo e voilà.
Il Babbo mi guarda soddisfatto, il cuoco incappella una bitta e siamo in banchina.
Guardo in terra e vedo una nuvola che si alza lontano.
E’ un cavaliere che si avvicina al galoppo lasciando una scia di polvere dietro di se.
E’ Andreino.
Arriva sottobordo ad una velocità folle per la sua cavalcatura, tira il freno a mano, fa un testacoda e si ferma proprio sul bordo della banchina.
Andreino è paralitico, ha qualcosa alle gambe, che sono nascoste sotto un plaid a scacchi e vive incastrato nella sua motocarrozzina rossa, è un centauro meccanico.
E’ il factotum del porto, ufficialmente è l’acquaiolo ma si occupa di tutto, dalle provviste alle pratiche con la capitaneria, sa trovarti con la stessa facilità un tender nuovo o un mulo cieco, posto che uno sappia cosa farsene.
Salto a terra e recupero dal portapacchi le tre forme di formaggio che aveva promesso al babbo l’anno prima.
Il bà gliele pagherà una cifra spropositata come al solito con mutua soddisfazione.
Il bottiglione di vino rosso da cinque litri e il fiasco di Filu ‘e ferru sono omaggio.
Passo le forme al cuoco che corre in cucina ad imbustarle nel domo pack prima che appestino tutta la barca.
Il comandante ed Andreino si mettono d’accordo per il rifornimento d’acqua e di gasolio, io mi avvicino al cavaliere e gli consegno quasi tutti i miei risparmi e gli spiego cosa mi serve.
Lui parte sgommando con alle spalle un mantello di lenzuola sporche da portare in lavanderia.
“ Quand I arriv ‘l Signor B?”
“Stsera alla seta”
Approfitto per fare un giro in banchina e sgranchirmi le gambe, né il babbo né il cuoco ne sentono l’esigenza, di solito restano a bordo per tutta la stagione, specialmente il Bà.
Cammino lungo il bordo e controllo se ci sono pesci all’ombra del molo, mi pare di vedere qualche sarago e qualche orata di piccola taglia c’è pieno di muggini enormi che sicuramente sanno di gasolio.
Arrivo fino all’edicola e compro tutti i “Mister No” che riesco a trovare, qualche Topolino e un paio di Zagor.
Occhieggio voglioso i giornaletti zozzi ma non trovo il coraggio di comprarli, non saprei nemmeno dove imboscarli a bordo, torno indietro.
A metà strada vengo raggiunto alle spalle dalla motocarozzina lanciata a folle velocità, mi fa il solito testacoda davanti e mi guarda.
Mi consegna un paio di pinne Rondine della mia misura che sembrano intagliate nel marmo tanto sono rigide e pesanti.
Poi solennemente alza il plaid e mi consegna un fucile subacqueo oleopneumatico come se fosse una spada.
“Nuota anche per me”
Mi inginocchio e lo prendo dalle sue mani
“Sarà fatto mio sire”
Sta montando maestrale ed il vento rimbalza sul terreno, ci arriva in faccia una folata calda di sabbia e pece.
Mettiamo fuori i parabordi dal lato sinistro e ci avviciniamo alla banchina , io sono di prua ed il cuoco di poppa con una cima per uno.
Il comandante accosta dolcemente e tiene la barca sui motori, con il vento che tenta di allontanarci dall’ormeggio.
Passo la cima dentro una campanella, un grosso anello, e faccio una gassa con il mio metodo.
La gassa, se la fai come ti insegnano a scuola, ti ci vogliono due mani e non la puoi eseguire con una cima in tensione, ho il mio sistema che mi consente di farla in scioltezza anche con una mano sola.
Passo la cima nell’anello, faccio un nodo semplice, lo giro verso il basso, faccio passare il dormiente sotto il corrente, la rinfilo nel nodo e voilà.
Il Babbo mi guarda soddisfatto, il cuoco incappella una bitta e siamo in banchina.
Guardo in terra e vedo una nuvola che si alza lontano.
E’ un cavaliere che si avvicina al galoppo lasciando una scia di polvere dietro di se.
E’ Andreino.
Arriva sottobordo ad una velocità folle per la sua cavalcatura, tira il freno a mano, fa un testacoda e si ferma proprio sul bordo della banchina.
Andreino è paralitico, ha qualcosa alle gambe, che sono nascoste sotto un plaid a scacchi e vive incastrato nella sua motocarrozzina rossa, è un centauro meccanico.
E’ il factotum del porto, ufficialmente è l’acquaiolo ma si occupa di tutto, dalle provviste alle pratiche con la capitaneria, sa trovarti con la stessa facilità un tender nuovo o un mulo cieco, posto che uno sappia cosa farsene.
Salto a terra e recupero dal portapacchi le tre forme di formaggio che aveva promesso al babbo l’anno prima.
Il bà gliele pagherà una cifra spropositata come al solito con mutua soddisfazione.
Il bottiglione di vino rosso da cinque litri e il fiasco di Filu ‘e ferru sono omaggio.
Passo le forme al cuoco che corre in cucina ad imbustarle nel domo pack prima che appestino tutta la barca.
Il comandante ed Andreino si mettono d’accordo per il rifornimento d’acqua e di gasolio, io mi avvicino al cavaliere e gli consegno quasi tutti i miei risparmi e gli spiego cosa mi serve.
Lui parte sgommando con alle spalle un mantello di lenzuola sporche da portare in lavanderia.
“ Quand I arriv ‘l Signor B?”
“Stsera alla seta”
Approfitto per fare un giro in banchina e sgranchirmi le gambe, né il babbo né il cuoco ne sentono l’esigenza, di solito restano a bordo per tutta la stagione, specialmente il Bà.
Cammino lungo il bordo e controllo se ci sono pesci all’ombra del molo, mi pare di vedere qualche sarago e qualche orata di piccola taglia c’è pieno di muggini enormi che sicuramente sanno di gasolio.
Arrivo fino all’edicola e compro tutti i “Mister No” che riesco a trovare, qualche Topolino e un paio di Zagor.
Occhieggio voglioso i giornaletti zozzi ma non trovo il coraggio di comprarli, non saprei nemmeno dove imboscarli a bordo, torno indietro.
A metà strada vengo raggiunto alle spalle dalla motocarozzina lanciata a folle velocità, mi fa il solito testacoda davanti e mi guarda.
Mi consegna un paio di pinne Rondine della mia misura che sembrano intagliate nel marmo tanto sono rigide e pesanti.
Poi solennemente alza il plaid e mi consegna un fucile subacqueo oleopneumatico come se fosse una spada.
“Nuota anche per me”
Mi inginocchio e lo prendo dalle sue mani
“Sarà fatto mio sire”
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