venerdì 24 settembre 2010

Barracuda e Champagne

Mi ha morso sul naso.
A me.
Mi ha morso sul naso e mi ha fatto sanguinare.
George.
George il bassotto.
Contando che sono circa un metro e ottantacinque ed il bastardo in questione non arriva, su quelle zampette del cazzo, ai 20 centimetri di altezza la cosa sembra un po’ inverosimile.
Ma intanto perdo sangue da due solchi ai lati del naso.
‘Fanculo George, infido esserino fatto a salsiccia focata, io sono abituato a ben altri cani, ho disinnescato  i figli di Barracuda e sono amato da tutti i cani della terra, mi hai ferito nell’orgoglio più che nel mio enorme naso.
Ci sono rimasto veramente male, i miei amici mi chiamano l’amico degli animali e mi sono sempre fidato di tutti i quattrozampe, loro lo sentono e facciamo subito amicizia.
Anche i temuti Barracuda come dicevo.
Barracuda il capostipite era una specie di pastore belga oversize deputato alla sorveglianza del cantiere dove veniva regolarmente rimessato il Galateia.
Silenzioso, veloce, dall’abbaio agghiacciante, pattugliava il cantiere e chi non era schedato fra gli amici veniva azzannato al polpaccio o, a scelta, all’inguine.
Io ero amico nella sua scheda da ragioniere belga, avevo passato la prova di iniziazione che consisteva nel farsi annusare il cavallo dei pantaloni sperando in Dio.
Aveva passato l’informazione anche ai suoi numerosi figli per cui io ero a posto, solo la Nerina aveva provato un agguato mentre di notte pisciavo allegramente nelle acque del fiume, colta sul fatto era stata inzuppata a dovere e non mi aveva più disturbato.
Barracuda il padre teneva sommamente al controllo della popolazione di gatti del Conte Verde, la cui villa ricoperta di edera confina con il cantiere.
Attuava un costante sfoltimento che aveva portato con gli anni a selezionare una razza di gatti velocissimi e dalle carni velenose, gli unici che potevano sopravvivergli.
L’unica volta che Barracuda è andato un po’ in difficoltà è stato quando l’hanno portato per funghi.

Formazione di partenza:
Gino, il padrone del cantiere, alla guida della preziosissima Lancia Flavia blu notte con moquette beige.
Il Comandante con stivaletti bassi di gomma e uno zaino di Ms, sul sedile davanti
La Ghifa e Barracuda seduti dietro.
Meta: Cerreto Laghi.

Terzo tornante dopo Fivizzano, Gino tira una seconda, il Comandante fuma, La Ghifa mugna un motivetto incomprensibile, Barracuda scoreggia.
La colpa ricade ovviamente sulla Ghifa, che se ne fotte e continua la litania.

Settimo tornate dopo Fivizzano, Barracuda uggiola e tira un peto terrificante che sibila come un ufo che entra nell’atmosfera, Gino scala in prima grattando brutalmente, il Comandante bestemmia, la Ghifa apre il vetro dalla sua parte.
Viene individuato il cane come possibile problema.

Tredicesimo tornante dopo Fivizzano, mantenendo la cabala dei tornanti dispari il lupoide si gira con un guaito verso la Ghifa, poggia il culo sul vetro del finestrino, tenta di emettere aria ma l’effetto contraccolpo lo proietta addosso al Ghifone che, senza fare una piega, afferra i testicoli del cane e li torce a caramella.
Il cane vomita sulla moquette beige.
Sosta obbligata , Gino pulisce ed invoca Odino, la Ghifa si sgranchisce le gambe, il comandante si inerpica su un poggio e trova dodici tonnellate di funghi in 4 minuti, però nemmeno un porcino.

Il cane è tristissimo e non vuole risalire in macchina, soprattutto pare non gradisca la presenza della Ghifa sul sedile posteriore, vengono proposte diverse formazioni compresa una improbabile con il cane alla guida, alla fine Il comandante si accomoda dietro e il cane davanti.

Quindicesimo tornante dopo Fivizzano la Ghifa scoreggia e dà la colpa al cane che non regge l’affronto e vomita di nuovo sul cruscotto, Gino si commuove e cerca di consolarlo, il comandante ne ha le palle piene, tanto i funghi già ci sono, e obbliga la comitiva alla ritirata strategica.
Barracuda ferito nell’orgoglio rimase abbacchiato per diversi giorni poi riprese coscienziosamente lo sterminio.

Sorrido al ricordo mentre mi tampono il naso, George mi guarda, stappo la bottiglia di champagne che mi hanno chiesto gli ospiti, accomodati sulle sedie da regista di poppa, e ne verso un po’ nella ciotola del cane, rabbocco la bottiglia con una identica quantità di piscio e mi avvio con i calici in mano.

La colpa non è mai dei cani, ma dei padroni.

martedì 17 agosto 2010

Tricampeones

La semifinale l’ho vissuta con distacco, senza Boniek la Polonia non aveva un filo di speranza.

Ma oggi no, oggi ci sono i Tedeschi, i Tugnin.
La situazione è critica, il cuoco ha fatto la pasta scotta , il babbo ha soffiato fumo tutta la mattina dall’unica narice funzionante , il sopracciglio da lupo mannaro aggrottato.
Il Signor B. è elusivo, dopo il bagnetto ristoratore si è infilato in cabina e mi aspetto di vederlo uscire con la divisa della Wermacht, stivaloni compresi.
Ho provato a pescare le boghe dal gommoncino ma sono distratto, mi sono affettato come al solito una falange e l’unica boga che ho preso mi ha cagato sul petto.
Le boghe fan così.
Buoni auspici.
Nel pomeriggio ci mettiamo in movimento per il solito punto di ancoraggio, c’è una calma irreale, una tensione palpabile, i rumori sono attutiti come sotto una nevicata.
Percuoto la castagna con il mazzuolo con poca energia, lo sguardo lontano, mi sveglia il solito grido belluino del comandante.
“FOND”
Ormai è l’ora, conveniamo tutti, armatore compreso, che non è il caso di cene pantagrueliche, panini e birra per tutti.
Mastico svogliatamente mentre il Signor B esce dalla cabina, ha i soliti pantaloni stazzonati sotto il ginocchio ed indossa una camicia di lino azzurra particolarmente elegante.
Si succhia i denti e con fare da gran paraculo tira fuori due bottiglie di champagne Taittinger riserva da un mobile.
“Giulio, mettile in frigo, tanto io vinco comunque”
Secondo me è una balla, tiferà Germania.
Fischio d’inizio, solite scaramanzie, una squadra mai vista, giochiamo praticamente con cinque difensori, Pablito e Spillo davanti, Conti all’ala, Tardelli, Oriali e Collovati in mezzo.
Non mi preoccupo, i tedeschi sono sfatti dopo la guerriglia con i francesi e anche se non siamo splendidi sono fiducioso.
Ma prego uguale, ogni secondo.
Mi preoccupo un po’ di più quando lo statuario Briegel sdraia in area il Brunetto nazionale e mi rendo conto che nessuno vuol calciare il rigore. Il mio Antognoni è fuori per infortunio e comunque l’avrebbe calciata in tribuna , Altobelli e Rossi cercano qualcosa per terra, devono aver perso le palle.
Si presenta il bell’Antonio, gonfia il petto, lo inquadrano da vicino, si sta cagando addosso, tira velocemente e non becca nemmeno il palo alla sinistra di Shumacher.
La bestemmia corale gonfia il salone del Galateia.
Il vecchio tedesco/napoletano sta nella sua poltrona davanti alla tv e dondola un piedone numero 47.
Nervi d’acciaio il bastardo.
Secondo tempo, si cambia, li massacriamo.Tardelli per Gentile che crossa al centro , e dico Gentile cazzo, che crossa al bacio per Rossi che insacca di testa, roba da matti.

E poi lui, con quelle gambe magre e lunghe che si accentra su passaggio di Scirea, si porta avanti sul sinistro il pallone, cazzo troppo avanti, ma no, scaglia una frombolata mostruosa che si incastra in rete.

Il portiere immobile con le manone lungo i fianchi, lui che parte, e tutti insieme partiamo con lui, un urlo che non finisce più, che ti consuma, che toglie spazio a tutte le parole , che ci da orgoglio e riscatto, è il momento dell’unione cosmica, del transfer di un popolo in un giocatore.

Smettiamo di urlare stremati, nel delirio mi è parso di vedere il piedone fermarsi ed un accenno di esultanza.
Che stia diventando napoletano più che tedesco il vecchio furbastro?
Tesissimi continuiamo a seguire il match che si chiude con un gol di Spillo di sinistro e il meritato gol della bandiera per i tugnin.
Choelo fischia e alza teatralmente il pallone con due mani verso il cielo nel cerchio di centrocampo, Pertini in tribuna salta come un ventenne e da pacche violente al re di spagna che sorride perplesso.

Mertellini grida per la prima volta in vita sua.

Tre volte.

Campioni del mondo.

Sono le due di notte, ci deve essere un bel casino a terra, sembra una guerra, io sono qui, sulla tormentina con la bottiglia vuota in braccio.
Hanno fatto anche i fuochi artificiali ma me ne fotto, me ne sto qui, ed è una gioia così intima, mi addormento sereno.

Mattina, poppa, bandiera tedesca che sventola sull’asta.

Io ed il cuoco che commentiamo esaltati la partita, si avvicina un gommoncino, due persone a bordo.
Ci dicono qualcosa in quel barbaro idioma, cercando probabilmente conforto, il cuoco si alza, tira su la maglietta, sul ventre prominente e duro si è legato una bandiera italiana.
Con le dita conta i gol e urla “Tre a un , e a cà”

Giulio Uber alles

sabato 15 maggio 2010

Colla

Non so se vi è mai capitato di immaginarvi come è fatto davvero un vostro organo.
Voglio dire proprio la fotografia di una cosa che avete dentro.
Una milza, la tua milza, che colore ha? E’ grossa più o meno di un barattolo di cibo per cani?
Puzza?
E’ comunque il cervello che mi affascina di più, lo immagino come una spugna grigiastra con un nocciolo duro dentro, di colore più scuro, dove risiedono i tuoi istinti primordiali.
Il tutto ricoperto da una spuma più chiara e molto morbida dove si annidano le tue capacità innate, dove si stabilisce se puoi lanciare una caccola a più di 20 metri o fischiare bendato tutta la Turandot a meno di 6 mesi di età.
Il tutto pralinato dalla neocorteccia, ciò che rende l’uomo quello che è, dove si trovano la coscienza di sé ed il libero arbitrio.
Ecco l’ultimo strato io me lo vedo rugoso come il mille foglie della trippa, e colloso.
E’ li che si appiccicano le nozioni inutili, quelle cose che nessuno ti ha mai chiesto di ricordare ma che sai lo stesso, restano lì appiccicate, come post-it tirati dal vento.
Ecco, io ho la neocorteccia molto appiccicosa ed involontariamente memorizzo una marea di cazzate che mi consentono di vincere sempre a Trivial Pursuit e di intavolare conversazioni di qualsiasi tipo con chiunque, passando per esperto in campi in realtà a me sconosciuti.
Sono un po’ sbilanciato verso l’etologia e lo sport, comunque minchiate ne sparo su qualsiasi cosa, difficilmente sono controvertibili e su ciò ci lucro, sfoderando una sicurezza che disarma l’interlocutore.

La giraffa ha quattro corna corte.

Il facocero ha delle verruche sul muso, non è vero che  la Iena può essere ermafrodita, la femmina ha il clitoride grosso a causa dell'alto valore di testosterone nel sangue.

Gran parte dei pesci inverte il sesso con il passare del’età.

L’oloturia, o cazzo di mare, è della stessa famiglia dei ricci di mare, gli echinodermi, chiamati così per la loro struttura a cinque punte.

Lo squalo maschio ha due cazzi e nemmeno una mano.

Lo stronzio ha un numero atomico più grande del berillio.

Il Baudone è uno dei grandi pittori del ‘500 veneziano.

La balenottera azzurra è il cetaceo più grande, cazzo e allora chiamalo balenona azzurra.

Il calamaro ha un solo neurone, detto assone, il calamaro gigante ha le unghie sulle ventose e combatte con il capodoglio, penso eviti la balenottera azzurra per le dimensioni, mononeurone ma mica scemo.

Omobono Tenni era un campione della motocicletta.

Leonardo da Vinci disegnò l’uomo vitruviano dopo aver visto suo zio che si gettava nudo in un pozzo.

David Bowie ed il tenente Colombo sono ciechi da un occhio, lo stesso.

Il tenente Colombo si è arruolato, cieco, in marina, a 17 anni, mentendo sul’età.

Il Gila è l’unico rettile a quattro zampe velenoso, il coccodrillo ha il cervello più piccolo del suo dente più grosso.

Se moltiplichi il tuo ascendente per pi greco e lo dividi per l’altezza del gradino medio non ottieni un cazzo.

Il cane si lecca le palle perché può.

mercoledì 10 marzo 2010

Clarì

Ho notato nella Baffona una somiglianza inquietante con la Zia Clarì.
Sono andato a comprare il pane ed improvvisamente mi sono accorto che nascosti fra quei baffi e quella fronte bassa c’erano un paio d’occhi azzurri di un’intensità impressionante, carichi di energia.
Assolutamente inaspettati ed inadeguati a quel castorino apparentemente dimesso.
Ho messo in moto il Johnson e sono tornato a bordo, terrorizzando il solito banco di muggini diesel al centro della baia.
La zia è la sorella della mamma, mi chiama sempre “Bel Ninin sett bellezze” e continua a riempirmi di caramelle e dolcetti come da piccolo.
Ora è malata di cuore e l’ho sempre vista vestita di nero o, a scelta, nero con minuscoli fiorellini bianchi.
Anche adesso ha un’energia e una carica impressionante anche se non è molto mobile, ciò non le impedisce di andare a portare un mazzo di fiori tutti i giorni al cimitero facendo tre chilometri di strada.
Ho visto le foto di quando era ragazza e con quei capelli neri ricci tagliati un po’ corti e quello sguardo fiero mi ricordava un po’ la Giò di piccole donne.
E fiera lo era, e coraggiosa.
Una fila lunghissima di straccioni, provati dalla fame, con in mano quella tessera annonaria che ti consentiva di prendere un po’ di pane nero che sapeva di segatura, il surrogato di caffè, fatto con chissà cosa e poco altro.
Una donna piccola, con una borsa nera, si guarda intorno, passa il peso da un piede all’altro, non è la pazienza la sua dote migliore.
Un passo, fermi di nuovo.
Tanti passi ora e grida, dall'altro lato della piazza.
Schnell, Raus con quell’accento che ti mette i brividi, e colpi di calcio di fucile nelle schiene, e calci, nel culo dei rastrellati.
C’è un uomo in divisa da vigile urbano fra i prigionieri, è alto, con il mento quadrato, sanguina un po’ dalla fronte, è suo cognato.
La donna piccola con la borsa nera esce dalla fila, avanza a passo di carica con il fuoco negli occhi e comincia ad urlare: “Rumbambit, dsgraziat, cos ‘tà fat? Cos tà fat, chi ‘t portn via? Dsgraziat, mo at la dai me”
I Tedeschi fermano la colonna ed alzano le armi, il graduato fa un gesto deciso ai suoi uomini e li ferma, si sta divertendo.
La donna piccola con la borsa nera non guarda nessuno, solo il vigile, si avventa su di lui e lo colpisce prima con la borsa, poi con le mani, lo graffia, grida, come una moglie tradita, come un’amante gelosa, come un puma.
Lo sposta dalla fila, lui piegato dai suoi colpi, gli da anche un calcio nei coglioni, l’ufficiale alza vicino all’orecchio destro la mano guantata di nero.
La tiene così, sospesa, mentre la piccola donna ha perso la borsa nera e ha cominciato a tirare per un orecchio l’uomo ancora più lontano, dandogli ogni tanto dei calci nel culo e nei polpacci, ci arriva a stento.
L’ufficiale ride e abbassa la mano, ma lo fa lentamente, non è un ordine, ridono anche gli altri Tugnin, non rideranno mai più quelli che dalla colonna non sono mai usciti.

venerdì 5 marzo 2010

Denti

Ho i denti pigri.
Da bambino quelli decidui non ne volevano sapere di cadere, gli unici che all’età giusta avevano visto bene di farsi rimpiazzare sono stati gli incisivi superiori, i palettoni.
Per gli altri c’è voluto un intervento un po’ deciso per stimolarli.
Prima operazione la panoramica, mi aspettavo una visita sui monti con vista sul golfo, mi hanno rinchiuso la testa tra due morsetti mentre tutti scappavano fuori dalla stanza ed un affare fatto a mezzaluna sia aggirava al limite del mio campo visivo.
Risultato una specie di foto in bianco e nero ed il babbo che affascinato guardava le mie due file di denti tipo squalo dicendo “ ‘T ‘m par un lampadario”.
Seconda operazione visita preventiva dal dentista.
Costui era un tipo curioso, padre di un mio amico, aveva una risata cristallina che finiva con dei singhiozzi acuti e rideva sempre.
Aveva le mai profumate e gli occhiali spessi, la gamba destra sensibilmente più corta dell’altra, la spingeva in avanti con impegno facendo un lieve saltellino.
Fatto il passo, rideva.
Carezzandomi la testa mi disse che andavano tolti tutti e che non mi avrebbe fatto male, io osservavo terrorizzato la mia bocca spalancata riflessa nelle sue lenti.
Ovviamente era falso, ai bambini mica puoi fare l’anestesia, mi spruzzava in bocca un affare che sapeva fortemente di menta che mi intorpidiva un po’ la parte e poi zac…
Risatina.
Dentino sotto il bicchiere, fatina soldino.
Quell’anno ho fatto un sacco di grana, ma ricordo come un incubo quei venerdì pomeriggio e quel senso di privazione.
Tutt’ora rabbrividisco quando sento un passo zoppicante.
I denti comunque continuarono ad essere pigri e crebbero pochissimo, ora dovrebbero essere nella formazione definitiva ma sono corti e taglienti, robustissimi con quelle radici profonde.
Riesco a tagliare qualsiasi cosa, anche il filo del 100, ma sono fatti per mordere non per masticare.
I denti di un grongo o di un pesce serra, di un predatore.
Quando rido non si vedono, tendo a portare verso l’alto gli angoli della bocca , per fortuna che, come dice il babbo, ho il labbro superiore lungo “da Baffi” che me li copre.
Il comandante sostiene che suo nonno aveva i denti doppi davanti, il mio esatto contrario, e che ci schiacciava le noci, non so come interpretare questa informazione che mi viene data con il tono dell’incoraggiamento.
Insomma mi sono un po’ fissato con questa storia dei denti da animale feroce e oggi ho azzannato un polpo vivo in mezzo agli occhi, come si vede fare nei film sugli scugnizzi di Napoli, o almeno credo.
Il polpo non era d’accordo, mi ha morso a sua volta e mi ha fatto sanguinare, mi ha beccato nella pelle tenera tra pollice ed indice della mano destra e ne ha staccato una bella fetta.
Gli ho girato la testa in maniera tradizionale e sono tornato a bordo.
Mi è rimasto in bocca un sapore schifoso, come se avessi leccato la figa di una mummia.

giovedì 4 marzo 2010

Foto

Mi resteranno solo un po’ di immagini, qui, in testa.

Non un racconto, una frase, uno scherzo, quelli verranno dopo.
Foto sulla retina.
Olbia in una mattina ammantata dalla foschia, le bitte nere lucide di guazza con i cavi bianchi ben impiombati intorno, un topo che corre.
Il supermercato sulla via principale, filoni di pane lungo e croccante nella borsa di tela.
Un coltello Puma in una custodia verde, con il manico nero, zigrinato da mille taglietti, lo do al comandante, mi da indietro cento lire perché si fa così.
Un taxi, valigie e borse, sorrisi ed occhiali da sole enormi, come schermi di televisione, un cappello di paglia con un nastro azzurro intorno, un vestito corto e leggero con mille colori.
Loro due vicini, non si toccano, lei ride, per lui sorridono gli occhi, luccicano d’oro.
L’abbraccio del cuoco con le sue donne, una sotto ogni braccio, felici.
Lo sguardo basso della ragazza di mio fratello, la bocca con le labbra piene piegata in un sorriso timido.
Tavolara con un branco di mufloni sulle coste a picco.
Un banco di boghe come una macchia nera attirate dalla pastura, un secchio pieno, il mio dito indice con sopra una goccia di sangue come una perla rossa.
Il cuoco che porta su dalle scale un piatto enorme di pesce fritto, la Susi che batte le mani.
La prua del gommone grigia puntata verso la spiaggia, borse di paglia, birra e panini.
La faccia dei tedeschi quando le donne si tolgono i reggiseni, dopo ore di sole, la mia faccia rossa e orgogliosa, quelle della mamma sono le più belle.
Le bolle d’aria che escono dal naso e dalla bocca della ragazza mentre le tengo la testa sotto, almeno la smette di lamentarsi, non è timida, rompe i coglioni.
La Isa e la mamma sedute fuori, di poppa, di notte, che parlano con un bicchiere di vino bianco in mano.
Una nuvola infiammata dal sole della Maddalena, viola e azzurra , va verso ovest e si straccia in tanti filamenti setosi.
Io e la Susi che parliamo fitti seduti sulla tormentina, lo strallo incrostato di piccoli cristalli di sale, il teak della coperta sbiancato.
La Isa che saluta il suo uomo, si gira sulla destra tenendosi un cappello calcato in testa con la mano, qualche capello le vola sulla guancia .
L’aria che sembra tendersi fra loro due, quasi vibra, un bacio a fil di labbra.
Il culo tondo della ragazza che si allontana, fasciato di fine cotone verde.
La nostra scia nera nella notte, tre uomini in plancia che guardano avanti, lontano.

mercoledì 3 marzo 2010

Fratello Rock

Allora, abbiamo stabilito la formazione.
Viene la mamma e la Isa, poi la figlia grande del cuoco, la Susi, che è simpaticissima.
Si portano dietro la fidanzata di mio fratello.
Lui non può, è militare per il servizio di leva.
Dragamine Cedro, marconista, passerà i prossimi due anni a spippolare con il signor Morse e con luci e bandierine, sempre che non lo sparino in Golfo Persico.
Non vedeva sicuramente l’ora, probabilmente inghiottire un caimano vivo sarebbe stato meno doloroso per lui, comunque non poteva che essere selezionato per quel mestiere.
E’ sempre stato fissato con le robe elettriche ed elettroniche, oltre che per la musica e la figa.
Ha costruito un sistema di carrucole che gli consente di ruotare a piacimento l’antenna della TV, siamo gli unici a vedere bene Koper Capodistria e la TV Svizzera (reclame favorita: un cuoco con i baffi che conversa con una massaia brutalmente fuori peso e cantano insieme gioiosi “In ogni kucina la patata è regina”).
Ha costruito un WHAWHA, un distorsore per la chitarra elettrica del Tasso, che emette degli ululati spaventosi e gracchia quando infili la spina, tutto ciò consente al Tasso, che non è capace di mettere insieme due accordi, di sembrare Jimi Hendrix ubriaco.
In soffitta giacciono cadaveri di basso sbuzzati, incrociati con ventilatori a pale, innestati su pentole a pressione, il tutto colorato di viola con l’aerografo.
L’accostamento cromatico non è il suo forte.
Ha passato un periodo turbolento negli anni di piombo, quando è passato dall’adorazione di Tommaso Campanella ad un timido tentativo eversivo, culminato con l’esposizione della bandiera comunista sulla statua della Beatrice in piazza Alberica.
L’inseguimento dei cellerini l’ha un po’ demotivato e con i suoi amici ha creato la Banda.
Sono un gruppo veramente forte ed innovativo, ti fanno venir voglia di urlare e di ballare, sono e saranno la colonna sonora della mia vita.
E’ svagato, apparentemente lavora su una frequenza diversa, si addormenta in luoghi e momenti improbabili, tipo alla mattina all’alba seduto sul bordo della vasca da bagno, vestito da marinaretto e si risveglia quando l’adunata è ormai passata da due ore.
E’ molto più intelligente di me, ma non sa essere ruffiano e mistificatore come il sottoscritto, per cui di solito quando fa una cazzata viene scoperto e rampognato di conseguenza.
Non nota i dettagli della vita comune, tipo se tuo fratello sta sturando una fogna immerso in una buca piena di liquami, non dico di aiutarlo, ma quantomeno non lo salutare con il tuo sorriso radioso dicendo a voce alta “Beh, io mi vado a fare una doccetta”; oppure se il tuo caro fratellino giace nottetempo inanimato abbracciato al water, per aver abusato per la prima volta di alcolici a basso prezzo, evita di pisciargli sopra la testa e tornare a letto come se non l’avessi visto.
Quei due coglioni un po’ pelosetti, quello scroscio come di cascatella alpina, quella luce soffusa della luce sopra lo specchio, la mutanda a mezza gamba, li porterò sempre con me.

L’alba di un nuovo giorno.

lunedì 1 febbraio 2010

Una settimana, ma ci pensi?
Una settimana.
Il Signor B. e la Grinza si levano di culo per una settimana.
Fin qui niente di strano, capita che l'armatore abbia impegni improvvisi di lavoro e parta da un momento all'altro.
Me lo immagino in un completo blu con i bottoni d'oro e una cravatta di lamiera che discute con gli azionisti di imperscrutabili strategie finanziarie.
E pensare che io l'ho sempre visto vestito casual-tedesco con sandali e short sformati, vi risparmio la descrizione dettagliata delle sue chiappe mosce quando si mette il perizomino lilla per fare il bagno, ovviamente mai in presenza del comandante che lo scuoierebbe all'istante.
La Grinza ha un pò nostalgia per Montecarlo ed è una cosa che sinceramente non capisco molto, fatto sta che si leva dai maroni pure lei.
Il punto vero è che ci concede l'uso della barca per una settimana intera, possiamo invitare la mamma, la moglie del cuoco, chi cavolo vogliamo e farci una settimana di vacanza.
Non sto più nella pelle.
Mi rendo conto solo adesso di avere un cordone ombelicale sempre ben attaccato in pancia e di averlo solamente srotolato attraverso il Tirreno.
Nonostante le dimensioni io sono sempre il piccolo di casa, forse un pò testa di minchia, ma sempre il piccolo.
Con la Mamma c'è una sorta di simbiosi, fatta da un rapporto molto fisico, cresciuto negli anni condivisi ad aspettare qualcuno.
E' una cosa che non è basata sulle parole, non sono stato un figlio troppo difficile, comincio ad esserlo adesso.
Comunque sono sempre stato abbastanza simpatico, dolce e ruffiano da guadagnarmi la fiducia di entrambi i genitori e ciò obbiettivamente mi ha concesso dei margini di manovra piuttosto ampi.
Che ho usato, a volte consapevolmente, a mio vantaggio.
Non ho mai dubitato un secondo del bene del babbo e della mamma, non mi è stato mai di peso
condividerlo con mio fratello che per certi versi ne aveva più bisogno di me.
Ha un carattere diverso dal mio, più introverso, caparbio nelle decisioni, non incline al compromesso, alle volte entra in contrasto con il Bà e la mamma fa da tramite per farli ragionare.
E' la sola che può davvero consigliarlo e condizionarlo, con lei parla senza scappare, assomiglia al comandante più di quanto creda lui stesso e come il Bà è solo la dolcezza e la capacità di diffondere un'aura di bene della mamma che lo addomestica.
Io sono cresciuto accanto a lei, tutti i giorni della mia infanzia li ho passati lì godendomi la sua bontà e le sue attenzioni, abbiamo guardato insieme lontano, seduti davanti ad un telefono che avrebbe dovuto suonare prima o poi, aspettando il suono di quella voce profonda e squillante al tempo stesso, resa rauca dal fumo, dal sale e dalla distanza.
La voce dell'uomo che amavamo entrambi.