martedì 8 maggio 2012

Odio

Bavosa, ti odio.
Riccio che mi punge, ti odio.
Pellaschier tu e la tua barca del cazzo, ti odio.
Dentice, non ti ho mai visto se non di sfuggita, ti odio.
Ragazzina francese, che ti fai sballottare appesa allo spinnaker della barca a vela qui vicino emettendo schiamazzi, ti odio.
Surfista del cazzo che è la quarta volta che ti riporto a terra con il gommone, non sei buono ad un cazzo, ti odio.
Pirla pirla pirla che hai dato fondo sulla mia catena e mi hai fatto fare un culo come una damigiana per liberarti, ti odio, milanese di merda.
Puzzo di sigaretta stantia nel posacenere, ti odio.
Buccia pelosa della pesca, ti odio.
Costume con l’elastico mollo, ti odio.
Rena nelle infradito, ti odio.
Olio delle patatine fritte lasciato nella tazza, ti ho bevuto di notte pensando fossi camomilla fredda, ti odio.
Scalino con il bordo di acciaio quante volte mi vuoi scortecciare l’alluce prima che ti prenda a martellate? Ti odio.
Freddo con le labbra blu dopo ore di mare, ti odio.
Nostalgia di casa, ti odio.
Odore di sudore, ti odio.
Elastico delle mutande che di notte ti imprigiona il pisello e ti fa fare sogni agitati, ti odio.
Bestione immondo con la schiena pelosa che si frappone fra il mio sguardo e quelle puppe imperiali, ti odio.
Golf Club con tutti quei babbioni bavosi che si attorcigliano attorno ad una mazza fra un drink e una bella ragazza, ti odio.
Coltello che non taglia, ti odio.

Oggi ho una giornata di merda.

giovedì 16 giugno 2011

Sacrifici

Di natura non sono crudele.
Sono fondamentalmente buono, ho vissuto troppo a lungo a stretto contatto con la mamma e per osmosi ho assimilato bontà e carità, però ogni tanto mi sorprendo in attività piuttosto inquietanti.
Togliere la membrana periviscerale ad un’ oloturia per usala come esca apparentemente non sembra un’azione gradevole ne tantomeno etica.
Infatti non lo è affatto.
L’oloturia tubolosa è un animale piuttosto strano, già il nome in greco significa “assai permaloso” per la curiosa abitudine di reagire agli attacchi cagando la parte terminale dell’intestino che poi si rigenera spontaneamente.
Ragazzi, che vita dura fare lo scuoiatore di oloturie.
Il nome in italiano è anche peggio, cazzo di mare o, per i più gentili, cetriolo di mare.
Insomma ho fatto una fagottata di queste bestie e mi appresto alla pulitura, pare che i saraghi siano golosissimi del sacco biancastro e fosforescente che contiene i visceri.
Arrivo sottobordo con il gommoncino e vengo scacciato dal comandante con mugugni e sbuffi di fumo, non le vuole a bordo.
Mestamente mi accosto ad una spiaggetta isolata dove sbarco le creature e i miei strumenti da serial killer.
Una tavoletta di legno, un coltello sottile, un cucchiaio con i bordi affilatissimi stile rasoio, un cencio sporco e puzzoso.
Metto il tagliere su uno scoglio piatto, prendo la prima vittima e l’appoggio sull’altare sacrificale di Re sarago dai denti neri.
Se avesse gli occhi sarebbero sbarrati e terrorizzati, se avesse una voce chiederebbe pietà, se avesse le mani le tenderebbe tremanti verso il carnefice, invece ha un culo, e lo usa benissimo.
Mi centra in pieno petto con una cagata inquietante.
La lancio in mare e prendo la seconda.
Questa è nera, bitorzoluta, appena la tocco si contrae e diventa durissima, penso di aver individuato la parte pericolosa e la punto lontano da me.
Come un novello Menghele recido rapido le estremità dell’animale, poi la incido per tutta la lunghezza con il coltello, getto in mare le viscere e comincio a raschiare quanto rimane della povera bestia con il cucchiaio affilato.
Mi scivola da tutte le parti e come al solito mi sego una bella fetta di polpastrello con lo strumento,
quindici minuti di schifo, sofferenza, sangue, muco e merda .
Risultato, una quantità minuscola di una sostanza biancastra a pallini neri.
Prendo tutto lo getto in mare, vaffanculo, non ne vale la pena.
Ho l’accortezza di sciacquare il dito prima di ciucciarmelo e con le orecchie basse torno verso il Galateia.
Il Babbo mi guarda preoccupato da un secondo abbordo con creature orrende.
Scuoto la testa e vado a prendere una pagnotta di pane.
Il Babbo sogghigna e sentenzia “ A’ t’l’ho dit ‘d lasciarli star i cazzi ‘d mar”
Sono buono, ma davvero stento a non mandarlo a cagare.
“Assai permaloso”, that’s me.

giovedì 14 aprile 2011

Mouse

Cambusa, che luogo meraviglioso.
Dove si sovrappone l’odore salato delle gallette al dolce dei biscotti svedesi al burro.
Dove aleggiano profumi, dove la vista vaga tra bottiglie e cartoni, il prosciutto in scatola vicino ai wurstel tulip e alla carne montana, là in fondo un bourbon canadese invecchiato mille anni vicino al cognac Martell, il fiasco di chianti con la veste di paglia che rivaleggia in eleganza e rotondità con la pancia del cuoco.
Luogo misterioso, a cui si accede sollevando una botola, che resta nascosto fino a che non accendi la lampadina grigliata a basso voltaggio e allora si svela, come la grotta di Ali Babà, pieno di tesori e di mistero, pepe e noce moscata, tè all’arancia e gelsomino.
E cacche di topo.
Cazzo un topo a bordo e pure in cambusa.
Quanto di peggio puoi avere in barca.
Posto sacro violato da immonda bestiaccia, che si aggira spandendo merda e leptospirosi fra in nostri alimenti, enorme pantegana scura dagli occhi rossi e cisposi che sbavante anela di azzannare la mano protesa a coglier la mela.
Rognoso leviatano che si aggira assetato di sangue e goloso di orecchie umane da rosicchiare nel sonno, orrenda chimera tutta denti e bava, nero di odio e denso di odore, famelico…..
Topino campagnolo piccolissimo e grazioso ed assolutamente inoffensivo che ti affacci da quel miserevole buchino che hai fatto in una scatola di cracker, ma come sei bello?
Scappa di nuovo nel buco e mi scatta il problema morale.
Non posso occultare le tracce troppo a lungo e non lo voglio accoppare, va catturato e sbarcato alla zitta.

Prima sera trappola n° 1: scatola dalle scarpe sorretta da uno stecchino, filo fra stecchino ed enorme pezzo di formaggio Gouda olandese posizionato sotto la scatola.
Risultato: scatola appoggiata a terra, mancano il formaggio e lo stecchino, il filo è sotto la scatola
Conclusioni: il topo è goloso, non usa il filo interdentale dopo cena, preferisce lo scovolino.

Seconda sera trappola n° 2: gabbietta auto costruita con sportello a molla, esca biscotto alla cannella.
Risultato: mezzo biscotto mangiato, sportello chiuso, gabbietta girata sottosopra, enorme cagata assolutamente sproporzionata alle dimensioni dell’animale nei pressi della trappola.
Conclusioni: il topo ha una forza mostruosa, probabilmente diabetico, allergico alla cannella, sicuramente è permaloso.

Terza sera trappola finale: calzino puzzolente lunghissimo del Signor B. riempito con una quantità smodata di pastiglie Valda, il contrasto fra i due odori è impressionante.
Risultato: topo svenuto in fondo alla calza, segni di zampine sul pagliolo della cambusa che compongono le parole “ti ho sempre amato Wilma”
Conclusioni: il topo aveva un’alitosi spaventosa causata dal formaggio Gouda ed era disposto a tutto pur di baciare di nuovo la sua amata.
Conclusioni n° 2: forse devo smettere di entrare in cambusa e scolarmi di notte chinotto e Mirto mescolati.

Prendo comunque il topo nel calzino e lo porto a terra con il gommoncino, lo rianimo massaggiandolo con il pollice sulla pancia, il topino scorreggia ed apre gli occhietti, è caldo e morbido, lo appoggio vicino ad un olivo e lui si arrampica agilmente sul tronco.

Ciao Squibby, salutami Wilma.

mercoledì 23 marzo 2011

Cognac

Il Babbo aggiusta tutto.
Se una cosa si rompe, si guasta, si usura, lui la ripara.
Usando strumenti di fortuna o, molto più spesso, spendendo il triplo del valore della cosa da riparare in attrezzi, strumenti, attrezzature.
E’ motorista, maestro d’ascia, falegname, elettricista, idraulico, muratore, velista, calzolaio, meccanico, contadino, orologiaio, modellista, pittore,inventore, cuoco, mago, astronomo.
Il problema è quando vuol riparare le persone.
Sulle teste riesce a fare un buon lavoro, motiva, assiste, sgrida, blandisce, dona sicurezza amore e appoggio, incute rispetto.
Sui corpi va così così.
Tende sempre a ragionare in termini idraulici ed elettrici anche riguardo alle funzionalità dell’organismo, rifacendosi alle leggi della fisica e della termodinamica, riducendo a scienza esatta una cosa che esatta non è.
Ha sempre avuto problemi con le articolazioni, schiena e ginocchia con il suo lavoro e con il suo peso si scassano velocemente ed ha scoperto un metodo per lavorare sulle ossa per far diminuire il dolore.
I bicchierini di vetro.
Secondo lui dipende tutto dall’umido, per cui prende dei bicchieri di quelli piccoli per il caffè, ci mette dentro un po’ di alcool o di cognac, li incendia con l’immancabile accendino Bic ed attende che il liquido si consumi tutto.
Poi appone il bicchiere rovente sulla parte dolorante e lo lascia lì, il bicchiere risucchia ciccia e pelle e dopo un po’ si riempie di liquido, che io ritengo non sia acqua o umido bensì grasso strutto,
una volta raffreddato il bicchiere lo toglie, dichiarando immediato sollievo.
Mah.
Il problema è che stanotte si è bloccato il Signor B., colpo della strega.
E lui lo ha convinto che con il suo metodo avrebbe ripreso a saltare come un grillo in men che non si dica.
Quindi procediamo.
Il vecchio carrarmato tedesco, duro come uno stoccafisso, viene completamente spogliato ed adagiato sulla pancia sul tavolo del salone.
A sua insaputa vengono approntati sei bicchieri adeguati alla lunga schiena dell’armatore.
Il Babbo, valutando l’età della preda, ritiene che la quantità di liquido sarà abbondante, per cui scalda al calor bianco dei bicchieri da cognac grossi come palloni da basket.
Poi li appoggia contemporaneamente su tutta la schiena del crucco che, fra sfrigolii sinistri, caccia un urlo terrificante.
Otteniamo un bellissimo effetto mammelle di mucca sulla schiena flaccida del vecchiaccio, con tutta la pelle rugosa risucchiata all’interno dei bicchieri.
Il Signor B. urla ma il Comandante non perde la calma, si accende una sigaretta, sa che è inutile provare a togliere il vetro prima che si sia raffreddato.
La quantità di liquido estratto è in realtà minuscola ed il principale bestemmia anche in turco.
Finalmente strappiamo le sanguisughe dal vecchio e ammirato osservo sei cerchi marchiati a fuoco sul groppone del tedesco.
Che miracolosamente si alza dal tavolo da solo, ritengo spinto più che dall’efficacia della cura dal terrore di un possibile trattamento aggiuntivo.
Con tutta la compostezza della sua razza ringrazia il comandante e si infila muto in cabina.
Il Babbo sorride, fiero del risultato.
Ragazzi, penso che il cognac non lo berrò mai più.

martedì 15 febbraio 2011

Cictò

“Smetla di sputar ‘t ‘m par Cictò Bum Bum.”
Il Babbo mi guarda e sorride e ricordo una descrizione fatta dal nonno, come me l’hanno riportata…

“Mentre imbocco via Cipria vedo una sagoma come di un pipistrello enorme che si accosta al muro e sento un verso inconfondibile.
Non è un brivido che mi scuote fino alle ossa ma una risata fragorosa mentre il grido squarcia la notte.
“Ferm li’a son Cicto’ Bum Bum e se t t mov ‘at fai ‘n sput n’tl mus che at’ afog”
Qui necessitano almeno tre precisazioni:
Via Cipria si chiama in realtà via Reginaldo Santacchè martire fascista, in ricordo di un ignoto cazzone che era rimasto sotto un camion durante lo sbarco del contingente italiano in Albania. Trovandosi in stato di ebbrezza e colto da una colica, si trovava con le braghe abbassate dietro un cespuglio di mirto quando era stato travolto dal soldato semplice Campagnolo Gaspare da Militello Balsamo alla guida del Camion delle salmerie.
Il primo caduto ufficiale degno di essere schiaffato su una lapide in un paesino sperduto che non gli aveva dato i natali.
La strada, sfortunatamente per lui e per la gloria del fascio, era da anni la più riservata del paese essendo incastrata tra due muri su cui non davano finestre. Il suo sviluppo serpeggiante creava non pochi angoli in cui l’uomo, la donna o l’animale trovavano quel minimo di privacy necessario per espletare le funzioni corporali. Da ciò derivava il nome volgare di via Cipria dove l’effluvio guidava il passo a schivar le merde.
Cictò Bum Bum era una delle creature più singolari del paese, maestro elementare, era impazzito per una non chiara storia di donne nei primi anni del ventennio, pare fosse implicata una duchessa o chissà chi.
Fatto sta che il povero Cictò era stato convinto a guardar donne di altro lignaggio a colpi di manganello e questo gli aveva messo fuori uso un po’ di neuroni.
Dopo un periodo di comprensibile imbarazzo per la struttura vagamente siluriforme che aveva assunto la sua testa, aveva deciso, non si sa quanto coscientemente, di diventare nobile.
Il cappello a cilindro si adattava perfettamente alla nuova forma della testa, il resto dell’abbigliamento, o come solevano dire i vecchi “muntura”, era costituito da uno splendido frac con le code e da un mantello alla Dracula con interno porpora, il tutto si presume trafugato dal bagaglio di qualche teatrante.
In un paese dove avere un paio di scarpe era un lusso Cictò risaltava abbastanza fulgidamente.
Terza precisazione, Cictò aveva un carattere di merda e una stazza fisica imponente, con i baffi neri tirati con la cera ed i basettoni a vederlo di notte con la muntura c’era da cagarsi addosso.
Siccome da nobile si comportava il rispetto del villico si aspettava, la conversazione poteva avere un andamento particolare e sfociare in episodi poco edificanti.
Meno male era cugino di mia moglie.
- Cictò ‘a son me, Giusè ‘l Parmsan
- Si presenti a modo, vile scudiero, al cospetto del Conte Aliberto Aliberti signore di Valdiluce e di Suddret, si rivolga a Noi con l’idioma di Dante, non con il ruvido dialetto di queste genti ignoranti.
- Mi scusi Eccellenza, mi pareva di aver sentito parlare in villico poco fa, non eravate Voi che vi dichiaravate tale Cictò qualcosa…
- Cictò Bum Bum per l’esattezza, è il mio alter ego che affiora in superficie quando sono alterato o un poco ebbro
- E quale delle due occasioni si era verificata poco fa?
- Quella della rabbia mio caro, essendomi inavvertitamente pisciato sulla scarpa sinistra infradiciandomi le ghette.
- Certo un ben grave affronto alla Vostra eleganza
- ‘T ‘m vo’ piar pr’ l Cul eh, Mi che ‘at dai un cazzot che ‘at amazz
- Dai Cictò, ‘sta bon ‘ca dev andar alla cava
- Va Ben Giusè as vden stasera, ciao
- Ciao Cictò non t rabiar dai
- Ciao, salut la Alba
- Ciao, at’la salut

Non so se sembro Cicto’ per il resto, non mi pare, però sputo lontano.
Ai baffi ci sto lavorando.

martedì 8 febbraio 2011

U' Buiu & U' pilu

Non brilla tutto, non splende tutto.
Non ci sono solo le storie, le svagatezze, i sogni ad occhi aperti, i desideri e gli appetiti.
C’è anche il nero, il buio, la paura, l’insicurezza.
Non so se è una roba adolescenziale, comunque, nonostante stia sempre bene con gli altri e con me stesso, ogni tanto, non spesso, cado.
Sempre all’ora del lupo, tra la notte che finisce ed il giorno sempre lontano.
Un brivido addosso, il ricordo da bambino quando, dopo una giornata meravigliosa e faticosissima al carnevale di Viareggio, improvvisa, prima del sonno, arrivò la consapevolezza che poteva anche non durare tutto per sempre.
Il pianto inconsolabile, le labbra di mia madre sulla fronte, i dolori di crescita alle gambe, la sensazione nel dormiveglia di avere mani e piedi enormi, gonfi come palloni, difficili da usare, impossibili da guardare.
Poi quel pensiero orribile che avevo scoperto, ma che tenevo celato da una tenda che ogni tanto si scostava, facendomi rabbrividire.
Ogni tanto mi prende e mi porta con sè, a fondo, allora mi alzo, per guardarlo in faccia.
Se guardo nel buio, quello vero, non vedo niente, non mi aspetto niente e mi monta il terrore.
Per me e per gli altri, come fa a finire, perché mai dovrebbe continuare.
Cazzo cazzo devo uscirne, mi sembra di soffocare, è come avere il torace costretto da doghe di ferro che si stringono piano piano, ho gli occhi umidi, il cuore rimbalza, sto perdendo il controllo, sto perdendo.
Bevo un po’ d’acqua, è gelata, l’ho tolta dal frigo e tracannata in fretta, un dolore sordo alla bocca dello stomaco, sapore di ferro, di ruggine in bocca.
Esco, ansimo, i sette scalini non finiscono più, aria, umida e calda, non dà sollievo.
Vomito un grumo di bile e terrore fuoribordo, le lacrime mi scendono dalle guance senza controllo.
Cosa c’è, cosa manca, cosa resta?
Cristo santo, non riesco a tranquillizzarmi e scenari apocalittici mi si affastellano davanti agli occhi l’unica cosa che mi calma è che comunque, forse, entro certi limiti, si può scegliere e usare la propria volontà ed il proprio arbitrio verso se stessi.
Giovane Werther da operetta, giovane imbecille sudato e mezzo, scrollati da dosso questo peso.
Improvvisamente mi passa, senza pensare a qualcosa di particolarmente rassicurante, così come è arrivata va via.
Mi trascino in cuccetta e mi addormento, fra desideri onanistici e pianificazioni piscatorie scivolo nel sonno.

Non c’è terrore che, al teenager , non possa passare con pesce e patata.

venerdì 24 settembre 2010

Barracuda e Champagne

Mi ha morso sul naso.
A me.
Mi ha morso sul naso e mi ha fatto sanguinare.
George.
George il bassotto.
Contando che sono circa un metro e ottantacinque ed il bastardo in questione non arriva, su quelle zampette del cazzo, ai 20 centimetri di altezza la cosa sembra un po’ inverosimile.
Ma intanto perdo sangue da due solchi ai lati del naso.
‘Fanculo George, infido esserino fatto a salsiccia focata, io sono abituato a ben altri cani, ho disinnescato  i figli di Barracuda e sono amato da tutti i cani della terra, mi hai ferito nell’orgoglio più che nel mio enorme naso.
Ci sono rimasto veramente male, i miei amici mi chiamano l’amico degli animali e mi sono sempre fidato di tutti i quattrozampe, loro lo sentono e facciamo subito amicizia.
Anche i temuti Barracuda come dicevo.
Barracuda il capostipite era una specie di pastore belga oversize deputato alla sorveglianza del cantiere dove veniva regolarmente rimessato il Galateia.
Silenzioso, veloce, dall’abbaio agghiacciante, pattugliava il cantiere e chi non era schedato fra gli amici veniva azzannato al polpaccio o, a scelta, all’inguine.
Io ero amico nella sua scheda da ragioniere belga, avevo passato la prova di iniziazione che consisteva nel farsi annusare il cavallo dei pantaloni sperando in Dio.
Aveva passato l’informazione anche ai suoi numerosi figli per cui io ero a posto, solo la Nerina aveva provato un agguato mentre di notte pisciavo allegramente nelle acque del fiume, colta sul fatto era stata inzuppata a dovere e non mi aveva più disturbato.
Barracuda il padre teneva sommamente al controllo della popolazione di gatti del Conte Verde, la cui villa ricoperta di edera confina con il cantiere.
Attuava un costante sfoltimento che aveva portato con gli anni a selezionare una razza di gatti velocissimi e dalle carni velenose, gli unici che potevano sopravvivergli.
L’unica volta che Barracuda è andato un po’ in difficoltà è stato quando l’hanno portato per funghi.

Formazione di partenza:
Gino, il padrone del cantiere, alla guida della preziosissima Lancia Flavia blu notte con moquette beige.
Il Comandante con stivaletti bassi di gomma e uno zaino di Ms, sul sedile davanti
La Ghifa e Barracuda seduti dietro.
Meta: Cerreto Laghi.

Terzo tornante dopo Fivizzano, Gino tira una seconda, il Comandante fuma, La Ghifa mugna un motivetto incomprensibile, Barracuda scoreggia.
La colpa ricade ovviamente sulla Ghifa, che se ne fotte e continua la litania.

Settimo tornate dopo Fivizzano, Barracuda uggiola e tira un peto terrificante che sibila come un ufo che entra nell’atmosfera, Gino scala in prima grattando brutalmente, il Comandante bestemmia, la Ghifa apre il vetro dalla sua parte.
Viene individuato il cane come possibile problema.

Tredicesimo tornante dopo Fivizzano, mantenendo la cabala dei tornanti dispari il lupoide si gira con un guaito verso la Ghifa, poggia il culo sul vetro del finestrino, tenta di emettere aria ma l’effetto contraccolpo lo proietta addosso al Ghifone che, senza fare una piega, afferra i testicoli del cane e li torce a caramella.
Il cane vomita sulla moquette beige.
Sosta obbligata , Gino pulisce ed invoca Odino, la Ghifa si sgranchisce le gambe, il comandante si inerpica su un poggio e trova dodici tonnellate di funghi in 4 minuti, però nemmeno un porcino.

Il cane è tristissimo e non vuole risalire in macchina, soprattutto pare non gradisca la presenza della Ghifa sul sedile posteriore, vengono proposte diverse formazioni compresa una improbabile con il cane alla guida, alla fine Il comandante si accomoda dietro e il cane davanti.

Quindicesimo tornante dopo Fivizzano la Ghifa scoreggia e dà la colpa al cane che non regge l’affronto e vomita di nuovo sul cruscotto, Gino si commuove e cerca di consolarlo, il comandante ne ha le palle piene, tanto i funghi già ci sono, e obbliga la comitiva alla ritirata strategica.
Barracuda ferito nell’orgoglio rimase abbacchiato per diversi giorni poi riprese coscienziosamente lo sterminio.

Sorrido al ricordo mentre mi tampono il naso, George mi guarda, stappo la bottiglia di champagne che mi hanno chiesto gli ospiti, accomodati sulle sedie da regista di poppa, e ne verso un po’ nella ciotola del cane, rabbocco la bottiglia con una identica quantità di piscio e mi avvio con i calici in mano.

La colpa non è mai dei cani, ma dei padroni.