giovedì 16 giugno 2011

Sacrifici

Di natura non sono crudele.
Sono fondamentalmente buono, ho vissuto troppo a lungo a stretto contatto con la mamma e per osmosi ho assimilato bontà e carità, però ogni tanto mi sorprendo in attività piuttosto inquietanti.
Togliere la membrana periviscerale ad un’ oloturia per usala come esca apparentemente non sembra un’azione gradevole ne tantomeno etica.
Infatti non lo è affatto.
L’oloturia tubolosa è un animale piuttosto strano, già il nome in greco significa “assai permaloso” per la curiosa abitudine di reagire agli attacchi cagando la parte terminale dell’intestino che poi si rigenera spontaneamente.
Ragazzi, che vita dura fare lo scuoiatore di oloturie.
Il nome in italiano è anche peggio, cazzo di mare o, per i più gentili, cetriolo di mare.
Insomma ho fatto una fagottata di queste bestie e mi appresto alla pulitura, pare che i saraghi siano golosissimi del sacco biancastro e fosforescente che contiene i visceri.
Arrivo sottobordo con il gommoncino e vengo scacciato dal comandante con mugugni e sbuffi di fumo, non le vuole a bordo.
Mestamente mi accosto ad una spiaggetta isolata dove sbarco le creature e i miei strumenti da serial killer.
Una tavoletta di legno, un coltello sottile, un cucchiaio con i bordi affilatissimi stile rasoio, un cencio sporco e puzzoso.
Metto il tagliere su uno scoglio piatto, prendo la prima vittima e l’appoggio sull’altare sacrificale di Re sarago dai denti neri.
Se avesse gli occhi sarebbero sbarrati e terrorizzati, se avesse una voce chiederebbe pietà, se avesse le mani le tenderebbe tremanti verso il carnefice, invece ha un culo, e lo usa benissimo.
Mi centra in pieno petto con una cagata inquietante.
La lancio in mare e prendo la seconda.
Questa è nera, bitorzoluta, appena la tocco si contrae e diventa durissima, penso di aver individuato la parte pericolosa e la punto lontano da me.
Come un novello Menghele recido rapido le estremità dell’animale, poi la incido per tutta la lunghezza con il coltello, getto in mare le viscere e comincio a raschiare quanto rimane della povera bestia con il cucchiaio affilato.
Mi scivola da tutte le parti e come al solito mi sego una bella fetta di polpastrello con lo strumento,
quindici minuti di schifo, sofferenza, sangue, muco e merda .
Risultato, una quantità minuscola di una sostanza biancastra a pallini neri.
Prendo tutto lo getto in mare, vaffanculo, non ne vale la pena.
Ho l’accortezza di sciacquare il dito prima di ciucciarmelo e con le orecchie basse torno verso il Galateia.
Il Babbo mi guarda preoccupato da un secondo abbordo con creature orrende.
Scuoto la testa e vado a prendere una pagnotta di pane.
Il Babbo sogghigna e sentenzia “ A’ t’l’ho dit ‘d lasciarli star i cazzi ‘d mar”
Sono buono, ma davvero stento a non mandarlo a cagare.
“Assai permaloso”, that’s me.

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