venerdì 24 luglio 2009

CusCus

“ An’ò mai capit prchè I ‘s lavn prima i pè e poi ‘l mus”
“Babbo, è il loro rituale, non so bene come funzioni comunque penso che l’idea sia purificarsi prima di chiedere udienza al loro Dio, per cui per ultima viene sciacquata la bocca che è quella che parla”
“ Ma al’è una cosa cal fa un po’ schif, ma T sen sicur che Moametto è piac tutta ‘sta manfrina”
“Maometto, non Moametto, e comunque lui è il profeta, si rivolgono ad Allah.
Non so casa dirti, non credo che il Dio cristiano abbia stabilito il rituale dell’eucarestia come viene professato in chiesa”
“Am sa che t’à ragion, comunque anche se non è una bella cosa da vder almanc I ‘s lavn”
“Babbo, dai smettila”
“Lo dico sul serio, tutte le religioni hanno regole igieniche e sociali comuni e di buon senso, è l’interpretazione delle regole che mi turba, non magnar un salam a 45 gradi sot al sol, ani vò un genio a capir cal’è una cosa intelligente”
“Già”
Tipica conversazione che accompagna un pranzo.
Il tavolo è stretto e lungo, a me tocca il posto a capotavola incastrato fra la porta e l’albero di maestra, il babbo è di fronte a me e Giulio sul lato lungo.
Stiamo azzannando degli spaghetti all’arrabbiata molto piccanti per cui la conversazione è scivolata sul peperoncino, poi sul cuscus, poi sulla religione, finirà con lo sport o la filosofia, chi può dirlo.
Improvvisamente il comandante fa uno dei suoi numeri preferiti, lo strangolamento a singhiozzo.
Stava cercando contemporaneamente di deglutire, bere un po’ di rosso, attaccare un argomento nuovo e ridacchiare.
Attacco di tosse da MS , un singhiozzo ed il disastro.
Sputa il vino a spruzzo e mi lava, emette suoni preoccupanti basati su un rantolo sordo ed una serie di tentativi di starnuto, diventa rosso paonazzo e si alza in piedi, poggiando le nocche della mano destra sul tavolo piegandosi in avanti.
Cerco di districarmi dalla mia posizione ed accorro in soccorso, provo a dargli dei colpi sulla schiena ma il rantolo continua, lo afferro sotto le ascelle e improvviso una manovra stile Heimlich con non poca difficoltà, ha il torace così largo che non riesco a chiudere bene le mani sotto il diaframma.
Mi sto cominciando a preoccupare quando starnutisce forte e tira un respiro affamato d’aria.
Tutto finito.
Ha tre spaghetti che gli escono dal naso, un capolavoro che non gli era mai riuscito, si ricompone velocemente, puliamo il tavolo, apparecchiamo e passiamo al secondo.
“Bà al er mei se T magnav ‘L CusCus”
“I’m fa acidità”

sabato 18 luglio 2009

Cruditè

“Giulio, sono pronte le mie cruditè?”
Giulio bestemmia e bofonchia per un minuto buono prima di aprire il frigo, prendere tutte le verdurine fresche, sminuzzarle ad una velocità sorprendente con un coltello grosso come una durlindana e frullarle nel mixer insieme al ghiaccio.
Proprio come piace alla Grinza.
E’ il nomignolo che danno il cuoco ed il Comandante alla Signora S. e devo dire che è piuttosto calzante.
Non ha un brano di pelle in tiro, è magrissima e si nutre di cellulosa, probabilmente ha lo stomaco modificato come i bovini.
Il risultato di questa dieta è sconvolgente, ha rughe in tutto il corpo e non fanno un bell’effetto, la cresta delle rughe è abbronzata, la piega di pelle all’interno è bianca, sembra uno sharpei tigrato anoressico.
Forse è per questo che i signori dormono in due cabine separate, l’attrazione di un tempo deve essere scemata.
Giulio è un cuoco con i controcazzi, ha lavorato in ottimi ristoranti, solo in seguito si è scoperto marinaio.
Cucinare solo verdure lo fa innervosire, si infuria specialmente quando gli fanno cucinare il piatto del Generale, è basato su una ricetta di un sedicente generale che venne in crociera qualche anno fa, per compiacerlo gli fecero fare questa misera teglia di verdure al forno che da quel momento è diventato il piatto più richiesto dalla Signora.
“Giulio, poi per questa sera mi prepari il piatto del Generale, che ne ho proprio voglia?”
Giulio impazzisce, stritola una mozzarella che gli esce schizzando fra le dita, colpisce con il coltello un tagliere che si schianta a metà e comincia a tirar fuori dal freezer tutto quello che gli capita sottomano.
“Giulio, sta calm”
“Va fora ninin, pr piacer”
Il babbo mi prende per il gomito e mi porta in timoneria, passiamo la giornata lucidando gli ottoni
mentre in cucina si sente uno sferragliare sordo.
Alla richiesta urlata dalla Grinza “ Giulio, mi prepari il mio cocktail’” sapendo che consiste nello spregevole succo di arancia mescolato con dell’ottimo champagne mi immagino una reazione violenta, Giulio esce dalla cucina indossando un cappello da cuoco, è sbarbato e profumato e sorride benevolo.
Posa il secchiello del ghiaccio, miscela i due liquidi e serve di contorno piccoli pezzi di verdura conditi con un pinzimonio profumatissimo.
Poi si gira e dice a me e al babbo che giù è pronto.
E’ mezzanotte, stiamo sempre mangiando, provo a rifiutare la Sacher torte, Giulio mi indica con la testa il tagliere sfondato.
A me la cioccolata è sempre piaciuta

Felini

“Ninin noi stari al sol che ‘t sen già pù ner d’un Dubat”
“Eh?”
“Mio giovine virgulto, se continui con questa reiterata esposizione ai raggi solari diventerai talmente nero da essere assimilabile a qualche selvaggia popolazione dell’Africa come i Dubat o gli Zulù”
Vado a controllarmi allo specchio, cosa che nell’ultimo mese non ho fatto spesso, e mi trovo davanti un selvaggio.
I capelli vanno in tutte le direzioni anche se li ho un po’ accorciati davanti agli occhi per evitare l’effetto alga davanti alla maschera durante le immersioni, ho un filo di barba sul mento che settimanalmente rado con il rasoio del babbo tagliandomi sistematicamente e sono ingrossato grazie al lavoro e alle cure di Giulio.
Però il babbo esagera, sono nero ma non come un Dubat.
Ho il colore di Babinga.
Babinga è il bagnino ad interim del mio bagno.
I bagnini di Marina sono figure mitiche, giovani energumeni che compaiono solo d’estate, in grado di mettere a posto la spiaggia, salvare un bagnante, sgridare i bimbi che giocano a pallone e trombarsi le Parmigiane in cabina il tutto contemporaneamente.
Nell’edizione dei Giochi senza frontiere tenutasi sulla spiaggia una squadra composta da soli bagnini ha stabilito il record di punti assoluto, li abbiamo fatti a pezzi vincendo tutte le prove, compreso il Fil Rouge.
Il mio bagno è l’unico ad avere un bagnino debosciato, tanto ci pensano Babinga e la sua banda.
Sono giovani studenti universitari che sonnecchiano sulle sdraio guardando tette e culi, poi verso il tramonto mettono in piedi spettacoli vari.
Gare di salto in alto nell’acqua, salti mortali, selvagge partite di pallone sulla battigia, gare di velocità e di resistenza, tuffi, piramidi umane, un Circo molto apprezzato da tutti.
E se affoga qualcuno parte Babinga, scuro color cioccolato,con un sorriso simpaticissimo ed i capelli neri ricci, se ne fotte del pattino lui, e riporta lo sfigato a riva a nuoto, poi riprende a giocare a frisbee.
Di tutta la banda il più rispettato è il Puma.
E’ un tipo strano che tutti trattano con deferenza, d’altra parte con quel soprannome non potrebbe essere altrimenti, solo che non coincide propriamente con il suo aspetto fisico.
E’ grasso e flaccido, bianco di incarnato e sta sempre all’ombra, non è nemmeno tanto alto e porta un capellino da marinaretto con sotto dei RayBan a specchio.
Babinga gli porta un gelato all’ora e lui ghigna contento, non l’ho mai sentito parlare.
L’ho osservato a lungo aspettando quel guizzo felino che sicuramente quel corpo strano gli concede, quella furia selvaggia che le sue braccia magre sanno scatenare, quel ruggito che la sua gola muta è in grado di emettere.
Nulla.
Con immenso rispetto mi sono avvicinato a Babinga e gli ho chiesto lumi:
“Il Puma è un genio, se non ci fosse lui a passarci i compiti col cazzo che riusciremo a passare gli esami all’università. Gli voglio bene al mio Pumaccio”
Pumaccio significa guanciale in dialetto.
Miaooooooooooooo

lunedì 13 luglio 2009

Goofy

Oggi pomeriggio, dopo l’abituale gita con Il Signor B. e la Signora S. alla spiaggia più isolata dell’arcipelago ed un pasto eccessivamente abbondante propostomi da Giulio, mi sono sparato all’ombra assorto nelle mie letture.
Amo tantissimo i libri di avventura, Zane Grey, London, soprattutto Hemingway, Kipling, Conrad, di solito vengono divorati con golosità, ma la pennichella incombente mi spinge verso l’altra passione, i giornalini.
Attacco con fervore un SuperPippo formato gigante che sicuramente mi farà gustosamente sprofondare nel sonno ridacchiando, quando vengo intercettato dal Babbo.
Mi guarda torvo, il problema è che a lui Pippo è simpatico, ma gli torna in testa ancora la guerra.
Pippo era il ricognitore degli americani, un piccolo caccia con una bomba sola, tutte le sere al tramonto partiva da Livorno e si dirigeva verso la linea Gotica, sorvolava un po’ la zona e prima di andarsene faceva una picchiata e sganciava la bomba, di solito vicino ad un bunker di tedeschi o comunque lontano dalla popolazione.
Era una presenza tutto sommato poco fastidiosa, la gente lo usava come orologio tanta era la sua puntualità.
“ Che ora ad’è?”
“Pippo I à sganciat mò, al’en le seta”
Fino al compleanno del babbo, ricca festa a base di semolino dolce con mozzicone di candela sopra, Pippo sgancia e centra l’orto, la casa trema e finiscono tutti sotto il tavolino, impiastrati di semolino ma senza ferite.
Dopo quell’episodio decidono di sfollare al monte.
Secondo round.
Il babbo a caccia di muggini con le mani sotto le alghe della fossa maestra, rombo lontano di aeroplano.
“’A’m tir su dall’acqua e à cerc un post pr rmpiatarm. ‘L Mrdon I ‘m ved e mi punta dritto, cos I vò da un ninin che corre disperato, si abbassa e vola a pochi metri dal suolo.
Faccio in tempo a vederlo, ha il casco e gli occhialoni, I è un ner con tanti denti bianchi e mentre I rid I ‘m spar.
Mi giro e corro disperato tra due file di traccianti , mi sorvola ed i bossoli delle mitragliatrici mi cadono tutto intorno, mentre vira vedo un tubo della fogna che sbuca sulla fossa, è strettissimo e non sono sicuro di entrarci, mi ci tuffo dentro a braccia tese, in perfetto stile.
Ci entro a stento e faccio fatica a respirare, sento il rombo e qualche colpo di mitraglia lontano da me, non ha visto dove mi sono infilato, poi si allontana.
‘Fanculo a lui e a Walt Disney”
Yuk Yuk

venerdì 10 luglio 2009

Cavad

Stamani mi sono alzato presto, poco dopo l’alba.
Non so perché avevo una strana agitazione addosso, forse nostalgia della mamma e di mio fratello, forse mi mancano i giochi e le follie in motorino con gli amici, non so.
Sono salito in coperta e mi sono piazzato di poppa seduto sulla falchetta, con la mano destra attaccata alla sartia ed ho inalato goloso l’aria del mattino, piena di umido e di odori.
Sulla spiaggia c’è un cavallo, non sapevo nemmeno ci fossero a Cala di Volpe i cavalli, che bruca pacifico un cespuglio ai limiti della rena, ha alzato la testa, annusato qualcosa con le froge e piano piano è sparito dietro le dune.
Ho sempre guardato i cavalli con un po’ di diffidenza, riesco ad entrare in sintonia con qualsiasi tipo di animale ma l’equino mi turba.
Il babbo era matto per queste bestie quando era bambino, suo zio li allevava e lui mi racconta che la sensazione di libertà provata cavalcando a pelo è meravigliosa.
La nonna aveva stroncato questa passione, il suo primo figlio, Tonino, era morto a tredici anni per una piccola ferita riportata guadando la Fossa Maestra con un baio, la nonna era entrata in ospedale bionda e madre ed era uscita dopo quarantotto ore con la testa canuta ed un figlio morto tra le braccia.
Tetano.
Da piccolo andavo con il babbo a caccia di merda, come tutti i marinai aveva una passione ed un attaccamento per il suo orto, simbolo della sua terra, praticamente morbosa.
Quando serviva il letame andavamo ad un piccolo maneggio al Cinquale, lo stalliere era un piccolo uomo molto muscoloso, con gli occhi azzurri di un bambino e tanti tatuaggi sulle braccia.
Era stato un fantino, poi la galera per più di dieci anni, non so per cosa, era timidissimo e parlava a stento, sembrava un buon uomo.
Viveva, per gentile concessione del padrone del maneggio, in un box per cavalli, in una condizione di così palese povertà, che mi veniva spesso da piangere ripensandoci a casa.
Cinquecento lire alla settimana, vitto e alloggio per accudire tutti i cavalli, era meno di quanto spendessi io in gelati e giornalini.
Il babbo, pagato il letame, gli allungava una mancia pari al suo stipendio di sei mesi, lo stalliere provava a rifiutare, il babbo lo aiutava a caricare la merda sull’Apecar che ci facevamo prestare all’uopo da Nuvola Rossa.
L’ultima volta che l’ho visto gli mancava la mano sinistra, un incidente sul lavoro, aveva gli stessi occhi blu stupiti, tristi, ed era sempre grato al padrone che gli dava comunque un lavoro a lui, terrone, fantino, galerano e con una mano di meno.
Per quattrocento lire alla settimana perché un monco spala peggio la merda.