Mi sono alzato dopo una notte passata insonne fra il rumore delle drizze che sbattevano sugli alberi delle barche a vela ormeggiate accanto a noi ed il latrare del cane Barracuda che dava la caccia ai gatti sulla banchina.
Ho respirato tutta la notte l’amaro odore delle alghe in putrefazione sullo scalo sentendo sul palato un sapore di ferro e di sangue.
Ho contato i battiti del cuore ed erano tanti, facevano da metronomo al russare sincopato di mio padre e alle scorregge sonore del cuoco che dormiva nella cuccetta sotto di me.
I frigo di bordo facevano sentire il colpo sordo del compressore il cui ronzio durava per quattrocentosettantacinque battiti prima di lasciare di nuovo il Galateia in un silenzio irreale.
Poi ricomincia tutto da capo, drizze, cane, alghe, babbo, scorreggia.
Sono sceso dalla cuccetta facendo attenzione a non svegliare nessuno, sono andato in cucina, salendo in silenzio i tre gradini che separano la zona equipaggio dal salone assaporando con la pianta dei piedi nudi la moquette bianca con delle inquietanti svastiche bianche in rilievo.
Annuso goloso l’odore del legno di canfora di quel misterioso mobile inglese pieno di cassetti.
Sei scalini e sono in timoneria, ancora legno gasolio e sigarette.
Esco sul ponte è tutto zuppo di rugiada, il teak della coperta sembra una lastra di ardesia, non è chiaro come di giorno.
Brivido, brivido, le palle si raggrinziscono per il cambio di temperatura e non solo, cammino lungo la coperta passando la mano destra sul passamano ricoperto di vernice coppale, è liscio come seta e le gocce di rugiada schizzano via dal dorso della mia mano e le vedo brillare alla luce gialla dei lampioni.
Arrivo di prua, scavalco il winch facendo attenzione a non inciampare in una catena e mi metto in piedi sul carabottino, sotto di me dormono, sopra di me chissà.
Guardo le ultime stelle della notte, tiro fuori l’uccello e piscio felice sentendomi in cima al mondo.
Mi annuso le mani, non rimango molto contento.
Apro il portello che porta dalla coperta direttamente nella zona equipaggio, faccio attenzione e mi muovo come un gatto, scendo la scala a pioli usando solo le braccia perché mi sembra una cosa molto figa e molto maschia, appena tocco il pagliolo con i piedi mio padre mi mette in mano un bicchiere rovente di caffè nero.
Mi sorride di sghembo con l’immancabile MS piantata fra le labbra sottili e callose, ha la barba fatta e profuma di schiuma, di fumo e gasolio come al solito.
Il bicchiere che lui teneva con indifferenza brucia come il reattore di una centrale nucleare, lo prendo fra indice e pollice, indice sotto e pollice sopra, e lo porto alla bocca.
“ ‘T sen pront? ‘A salpan.”
“ ‘A son pront, ‘am vest e andian”
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