giovedì 29 gennaio 2009

Donne

Non è che mi abbia lasciato solo, ha controllato sul radar che non ci fossero imbarcazioni nel giro di quattromilioni di miglia marine, ha verificato la posizione e controllato la rotta , poi si è messo di poppa con il piede sulla panca e guarda fuori con il vento nel naso, lascia dietro di noi una lunga scia di mozziconi come un pollicino di 100 chili, la bandiera tedesca schiocca alle sue spalle issata sull’asta di pitchpain.
Io gioco a fare il timoniere e l’impegno mi fa crocchiare i nervi delle mani, non riesco a mollare con gli occhi la bussola ma devo fare attenzione perché sto usando troppo timone , la barca reagisce giustamente con un po’ di ritardo alle brusche sollecitazioni ed avanziamo a zig zag scadendo verso sinistra, se continuo così ci ritroviamo in Croazia.
Il vento ha un po’ mollato, il mare sta bonacciando e sicuramente quando ci troveremo a ridosso di Capo Corso le condizioni miglioreranno ancora.
Ho troppo da fare per pensare alla nausea che è quasi scomparsa e cedendo al ritmo del beccheggio e al pulsare dei due motori che ronfano come gattoni ripenso a come è iniziato questo viaggio.
Ho passato un inverno di merda, tormentato da un infantile amorazzo non corrisposto mi sono arrampicato per 42 giorni di scuola consecutivi fino alla Chiesa di San Pietro a Portovenere.
Ovviamente non ci sono mai entrato dentro, appollaiato sotto il portico a picco sul mare ho pianto, scritto lettere piene di appiccicosi sentimenti che ho consegnato ad un mio amico anziché a lei, mi sono sbronzato di mattina e ho sviluppato dipendenza da tutti i flipper della zona.
Il quarantatreesimo giorno c’erano le udienze.
Io non lo sapevo.
La mamma si.
Mentre venivo consolato dalle due mie amiche , una bionda dalle tettone e una mora con il culo piu’ bello di tutte le russie, che trascuravano tutti i fidanzati per leccarmi le lacrime dalla faccia come due gatte affettuose, spiegandomi che la mia amata era un nano malefico che non mi meritava, a casa si stava preparando un’accoglienza di riguardo per il giovane virgulto.
Finite le scene di conforto la mora mi fa’:” ma per le udienze come hai fatto?”.
Gelo.
Torno a casa sobbarcandomi i 50 km di pullman sentendomi una merda, cercando di trovare una scusa plausibile.
Entro in casa terrorizzato, i miei mi aspettano in cucina, odore di polenta e di soffritto.
“ Noaltri andian via do dì, ‘t sen grand, fa la prsona seria”
Cazzo, niente urli o ceffoni, solo il peso della mia stronzaggine.
Dopo due giorni il babbo mi comunica che L., il suo marinaio è gravemente malato e che per la stagione estiva non vorrebbe sostituirlo per fare arrivare lo stipendio completo alla famiglia.
Non aspettavo altro.
“A vegn me, an son tant bon ma a son fort”
Mare mare mare mare mare per tre mesi, niente donne crudeli, niente scuola tanto sono spacciato e mi schiacceranno come un pidocchio, pesci, vento e chissà cosa.
Sono felicissimo ma non lo do a vedere, come se fosse un sacrificio ed io un ometto tanto responsabile anziché quel piccolo figlio di puttana ruffiano che sono.
Non ci cascano nemmeno per un’istante ma si guardano e dicono insieme
“Brav”

martedì 27 gennaio 2009

Verso Capraia

Ogni barca ha il suo passo, il suo ritmo, la sua maniera.
Ogni barca è viva e la devi capire.
Il Galateia è una barca solida, un motorsailer di ventisei metri e mezzo con due alberi costruita in ferro da un cantiere di Spijkenisse in Olanda.
In ferro svedese, progetto tedesco, motori tedeschi, anima italiana.
E’ larga e robusta, 11 nodi la velocità di crociera, 15 la massima.
E’ testarda e dolce come il suo comandante, ti porta ovunque ma alle sue condizioni.
Quando ha il mare al mascone non rolla nemmeno tanto, ha un modo tutto suo di affrontare le onde.
Abbassa un po’ la prua come se volesse dargli una testata, viene fuori dalla cresta gentilmente, si appoggia nel cavo come se la cosa non la riguardasse, sorpassa con la poppa il culmine e lì fa una leggera scodinzolata.
Io ho appena scoperto che la scodinzolata non và a genio al mio sistema vestibolare.
Sono sul verdognolo e non mi capacito di soffrire il mal di mare, non mi è mai successo prima.
Il cuoco mi si avvicina con in mano un pezzo di pane secco con sopra delle acciughe salate e un bicchiere di vino rosso.
Cazzo non pensavo di stargli così sui coglioni, mi vuole uccidere.
Provo ad ingurgitare qualcosa e bevo il vino come se fosse sperma di cammello.
Il cuoco mi alza e mi porta in plancia.
Il babbo mi guarda con il solito sorriso a mezza bocca, ha l’occhio destro strizzato per il fumo della sigaretta e penso che ormai lo tiene così anche nel sonno per mettersi avanti con il lavoro.
“Non la senti, ven chi”
Mi mette al timone e mi dice di continuare per 190° ancora per mezz’ora e và a farsi un caffè.
Sono in lieve difficoltà, le mani mi sudano e me le sento ghiacciate, scivolano sulla ruota di legno del timone e si fermano solo quando incontrano una razza, non riesco a guardare in alto verso la bussola e prendo le onde a cazzo.
Ho poggiato nettamente verso sinistra così prendo il mare al traverso e la barca rolla sensibilmente.
Ovviamente non so dove sto andando.
Il comandante è tornato con il solito bicchiere fumante in mano, mi dice di andare un po’ a dritta, mi tira su le mani da dove erano precipitate, mi fa allargare i piedi e piegare un po’ le ginocchia.
Entro nell’onda con l’inclinazione giusta, il Galateia dà la sua testata, si appoggia, scodinzola.
In quel momento la sento, con le piante dei piedi ben piantati e con lo stomaco, allungo leggermente il ginocchio desto, una cosa impercettibile, ed il timone fa forza sul palmo della mano sinistra.
La barca scavalca l’onda con la poppa e aggredisce quella successiva.
“ ‘Tà capit?”
“’O’ capit”
“ quand a sian ‘n Capraia chiamm.”

rotta per 190°

Rotta per 190°, vento da NW moderato, mare forza 4 in diminuzione, cielo limpido.
Siamo partiti all’alba, ho passato mezz’ora nel pozzo delle catene illuminato da una fioca luce a 12 volt.
Usando una paletta con un lungo manico ho disposto per il meglio le catene mentre venivano virate a bordo.
Maglia per maglia, con l’attenzione di chi non sa cosa cazzo sta facendo.
E perché.
Dopo un po’ mi sono accorto che se facevo cadere le catene per gravità senza fare niente queste occupavano un bel po’ di spazio, salivano velocemente verso l’alto e il winch cominciava a sgranare.
Ho cominciato a raccoglierle con la paletta mano a mano che arrivavano a bordo e a fargli fare un largo giro, in larghe volute come un’enorme merda di cane.
Questo metodo mi ha dato grandi soddisfazioni.
Sarò il piu’ grande accumulatore di merde di cane della storia.
E ne sono contento.
Quando l’ancora sbatte sull’occhio di cubia fa un “clang” secco, vedo spuntare all’interno del pozzo l’ultima maglia , ho finito il mio lavoro.
Esco veloce dal pozzo, ripongo la spatola al suo posto chiudo la luce ed il portello con i suoi gallocci.
Saltello verso poppa con un’andatura stile gabbiano che non è proprio l’ideale per stare in equilibrio e ogni tanto devo reggermi alle sartie, arrivo in timoneria con un sorriso e con una domanda
“ Bà, ma com as ciam quella paletta?”
“Paletta”
Appunto.
Rotta per 190°, vento da NW moderato, mare forza 4 in diminuzione, cielo limpido
Sto vomitando.

lunedì 26 gennaio 2009

1982 Galateia

Mi sono alzato dopo una notte passata insonne fra il rumore delle drizze che sbattevano sugli alberi delle barche a vela ormeggiate accanto a noi ed il latrare del cane Barracuda che dava la caccia ai gatti sulla banchina.
Ho respirato tutta la notte l’amaro odore delle alghe in putrefazione sullo scalo sentendo sul palato un sapore di ferro e di sangue.
Ho contato i battiti del cuore ed erano tanti, facevano da metronomo al russare sincopato di mio padre e alle scorregge sonore del cuoco che dormiva nella cuccetta sotto di me.
I frigo di bordo facevano sentire il colpo sordo del compressore il cui ronzio durava per quattrocentosettantacinque battiti prima di lasciare di nuovo il Galateia in un silenzio irreale.
Poi ricomincia tutto da capo, drizze, cane, alghe, babbo, scorreggia.
Sono sceso dalla cuccetta facendo attenzione a non svegliare nessuno, sono andato in cucina, salendo in silenzio i tre gradini che separano la zona equipaggio dal salone assaporando con la pianta dei piedi nudi la moquette bianca con delle inquietanti svastiche bianche in rilievo.
Annuso goloso l’odore del legno di canfora di quel misterioso mobile inglese pieno di cassetti.
Sei scalini e sono in timoneria, ancora legno gasolio e sigarette.
Esco sul ponte è tutto zuppo di rugiada, il teak della coperta sembra una lastra di ardesia, non è chiaro come di giorno.
Brivido, brivido, le palle si raggrinziscono per il cambio di temperatura e non solo, cammino lungo la coperta passando la mano destra sul passamano ricoperto di vernice coppale, è liscio come seta e le gocce di rugiada schizzano via dal dorso della mia mano e le vedo brillare alla luce gialla dei lampioni.
Arrivo di prua, scavalco il winch facendo attenzione a non inciampare in una catena e mi metto in piedi sul carabottino, sotto di me dormono, sopra di me chissà.
Guardo le ultime stelle della notte, tiro fuori l’uccello e piscio felice sentendomi in cima al mondo.
Mi annuso le mani, non rimango molto contento.
Apro il portello che porta dalla coperta direttamente nella zona equipaggio, faccio attenzione e mi muovo come un gatto, scendo la scala a pioli usando solo le braccia perché mi sembra una cosa molto figa e molto maschia, appena tocco il pagliolo con i piedi mio padre mi mette in mano un bicchiere rovente di caffè nero.
Mi sorride di sghembo con l’immancabile MS piantata fra le labbra sottili e callose, ha la barba fatta e profuma di schiuma, di fumo e gasolio come al solito.
Il bicchiere che lui teneva con indifferenza brucia come il reattore di una centrale nucleare, lo prendo fra indice e pollice, indice sotto e pollice sopra, e lo porto alla bocca.
“ ‘T sen pront? ‘A salpan.”
“ ‘A son pront, ‘am vest e andian”

giovedì 1 gennaio 2009

Giri di bussola

Una delle prime volte che sono uscito in mare con mio padre è stato per un'attività di routine e forse un pò noiosa.

I giri di bussola.

Le bussole subiscono l'influenza dei campi magnetici di bordo ed ogni tanto, specialmente dopo un periodo di rimessaggio, vanno regolate.

Un comandante esperto ed abilitato a questa funzione inserisce piccoli pezzi di metallo intorno al quadrante in maniera da riportare l'ago sul nord.

Sono piccole deviazioni, niente di importante se si effettuano brevi tratte ma abbastanza da portarti a New York anzichè a Buenos Aires su un percorso più lungo.

Quello che tu credevi fosse vero era in realtà falso, i tuoi punti cardinali tutti sballati.

Al me bambino tutto quel girare e regolare era piaciuto molto, e penso che mio padre abbia fatto lo stesso con me.

Ha messo sotto il mio quadrante piccoli pezzi di cuore, di vita e di sorriso, un bel pò di testardaggine e tanto amore in maniera che ritrovassi sempre la strada, mi ha dato la consapevolezza che le cose non sempre sono come sembrano e che in ogni caso si possono aggiustare.

Io so sempre dov'è il Nord, è là,

due gradi più a dritta di dove vorrei andare.